lunedì, Settembre 2, 2024
Home Blog Pagina 20

Antitrust, maxi multa a Enel, Eni e altre società dell’energia

0
antitrust multe società energia italia
Foto X @Radio1Rai

La scure dell’Antitrust si abbatte sulle società dell’energia. L’ente ha irrogato sanzioni complessive per oltre 15 milioni di euro nei confronti di Enel Energia, Eni Plenitude, Acea Energia, Iberdrola Clienti Italia, Dolomiti Energia ed Edison Energia. Lo si legge in una nota. La decisione è stata resa nota il 15 novembre.

Secondo l’Antitrust le 6 società hanno adottato pratiche commerciali aggressive condizionando i consumatori. In particolar modo per quello che riguarda l’accettazione di modifiche in aumento dei prezzi dell’energia elettrica e del gas. Il tutto in contrasto con la protezione normativa derivante dall’articolo 3 del Decreto Aiuti bis.

Perché l’Antitrust ha multato

La norma aveva vietato aumenti in un contesto caratterizzato da gravi criticità nel settore energetico con significativi aumenti dei costi. In particolare, Enel ed Eni – cui sono state irrogate sanzioni di 10 milioni e di 5 milioni – hanno modificato unilateralmente i prezzi di fornitura a oltre 4 milioni di consumatori. E lo hanno fatto sulla base delle clausole contrattuali che consentono alle stesse società di decidere a propria discrezione se e quando modificare le tariffe, una volta scaduti i prezzi dell’offerta economica scelta.

Così, i clienti si sono visti recapitare lettere anche diversi anni dopo la scadenza dell’offerta economica. Missive con cui Enel ed Eni aumentavano i prezzi in assenza di una scadenza nota al consumatore finale. Si evidenzia, nel caso della sanzione ad Enel pari a 10 milioni, che è la prima volta che si applica il massimo edittale da quando è stato modificato il Codice del Consumo.

I casi di Acea e Dolomiti

Acea e Dolomiti hanno ritenuto che le comunicazioni di modifica unilaterale dei prezzi, inviate prima dell’entrata in vigore del divieto, si sarebbero perfezionate dopo 10 giorni dall’invio delle stesse. Senza rispettare il preavviso di 90 giorni. Queste società hanno quindi aumentato i prezzi prima della scadenza corretta. E, nel caso di Acea, anche con modifiche unilaterali in violazione della norma. Per tali ragioni l’Antitrust ha irrogato, rispettivamente, sanzioni pari a 560 mila euro e 50 mila euro.

Iberdrola da maggio a ottobre 2022 ha inviato comunicazioni con cui minacciava la risoluzione contrattuale. Il motivo? Per eccessiva onerosità sopravvenuta in caso di mancata accettazione di un nuovo contratto di fornitura con condizioni economiche peggiorative. Anche questa condotta era volta ad aggirare l’articolo 3 del decreto, facendo pressione sui consumatori ad accettare la modifica unilaterale per aumentare i prezzi. L’Antitrust le ha irrogato una sanzione di 25mila euroEdison, infine, ha applicato l’incremento dei prezzi prima della scadenza delle tariffe prevista dal contratto. Visto che la società ha ristorato i propri clienti e dato il numero marginale di consumatori coinvolti, L’Antitrust le ha irrogato il minimo edittale di appena 5mila euro.

Inflazione ancora alta

I prezzi fuori controllo delle bollette dell’energia, per regolare i quali l’Antitrust è intervenuta, appaiono ancora più stridenti se paragonati al carovita che c’è nel nostro Paese. A ottobre sono rallentano ulteriormente in termini tendenziali i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona (da +8,1% a +6,1%) e quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +6,6% a +5,6%). Ma si tratta di un’inflazione ancora troppo alta. Lo rileva l’Istat spiegando che “un contributo al ridimensionamento dell’inflazione (scesa ad ottobre all’1,7% tendenziale, ndr) si deve inoltre alla dinamica dei prezzi dei beni alimentari, il cui tasso tendenziale scende al +6,3%, esercitando un freno alla crescita su base annua dei prezzi del “carrello della spesa” (+6,1%).

 

Advertisement

Smart working: numeri in Italia, benefici e rischi

0
smart working
Lavoratore in smart working - DirittoLavoro

Resosi noto soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, lo smart working è ad oggi una tipologia di lavoro scelto da sempre più aziende. Filosofia sempre più sposata anche in Italia, della quale oggi possiamo analizzare anche i benefici e i potenziali rischi.

Durante la pandemia lo smart working ha raggiunto picchi molto elevati per poi subire un lieve calo negli anni successivi. Il 2023, però, ha segnato un nuovo aumento dei lavoratori da remoto in Italia. Secondo la ricerca dell’Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno Rimettere a fuoco lo smart working: necessità, convenzione o scelta consapevole?, nell’ultimo anno si stimano oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori da casa. E la tendenza sarebbe cresciuta soprattutto nelle grandi imprese, dove ci sarebbe oltre un lavoratore su due in smart working.

La ricerca sullo smart working

Gli effetti dello smart working sono diversi e se per un verso si può parlare di benefici, per un altro vero potrebbero emergere anche dei potenziali rischi. Partendo dagli aspetti positivi, si può dire che, come ha evidenziato lo studio, anche solo due giorni a settimana di smart working riducono l’emissione di CO2. Nel dettaglio si eviterebbero emissioni pari a 480 kg all’anno a persona. Questo perché il lavoro da remoto si collega a minor numero di spostamenti e minor uso degli uffici. Riguardo poi al mercato immobiliare, si registra un cambiamento sulla ricerca delle case. Pare che il 14% di chi lavoro da remoto abbia cambiato casa o deciso di farlo, scegliendo per la maggior parte zone periferiche o piccole città.

Un aspetto, quello legato al mercato immobiliare, che evidenzierebbe come lo smart working possa avere degli effetti positivi nella rivalutazione di certe aree del Paese e nella ricerca di uno stile di vite più sano. Secondo lo studio, inoltre, pare che il lavoro da remoto sia potenzialmente in grado di migliorare il benessere mentale. Si parla in questo caso dei ‘veri’ smart worker, ovvero chi lavora con flessibilità di orari, per obietti e ovviamente sempre da casa. Volendo però evidenziare anche alcune criticità, Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio avrebbe dichiarato che i lavoratori da remoto: “Sono più frequentemente vittime di forme di tecnostress e overworking“.

Come prevenire i rischi

In questo contesto, come sottolinea la direttrice dell’Osservatorio smart working Fiorella Crespi e riporta il sito di Sky Tg24, un ruolo fondamentale lo rivestono i manager. “I lavoratori con un capo realmente smart (che assegna obiettivi chiari, fornisce feedback frequenti e costruttivi, favorisce la crescita professionale e trasmette gli indirizzi strategici) hanno livelli di benessere e prestazioni migliori“. In sostanza, il lavoro da remoto comporta lati positivi ma anche rischi che è bene conoscere per saper gestire nella maniera opportuna una tipologia di lavoro che sembra si stia diffondendo in maniera sempre più importante.

Difatti, emerge che tutte le grandi imprese prevedono di mantenere lo smart working anche in futuro, solo il 6% si dichiara incerta. Infine, dallo studio si apprende anche nell’ultimo anno sono state messe in pratica delle sperimentazioni di nuove forme di flessibilità sul lavoro, tra cui emergono settimana scorsa e alternanza tra lavoro in presenza e da remoto.

LEGGI ANCHE: Disoccupazione agricola: cos’è e come richiederla

Advertisement

Legge 104: modifiche e novità introdotte dalla recente approvazione di due decreti legislativi

0
Legge 104: novità e modifiche introdotte da due recenti decreti legislativi
Legge 104: novità e modifiche introdotte da due recenti decreti legislativi approvati il 3 novembre 2023 dal Consiglio dei ministri - Diritto-lavoro.com Foto crediti: Pinterest

In data 3 novembre 2023, il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame preliminare, due decreti legislativi finalizzati all’attuazione della Legge n. 227 del 22 dicembre 2021. Tale normativa aveva conferito al governo l’incarico di procedere alla revisione e a un successivo riassetto delle attuali disposizioni concernenti la disabilità. In sostanza, sono state introdotte rilevanti novità riguardanti la Legge 104.

I suddetti decreti, attuativi della legge quadro sulla disabilità, hanno come scopo principale la riduzione della complessità burocratica e lo snellimento delle diverse procedure coinvolgenti le persone con disabilità. In particolare, le modifiche apportate riguardano le definizioni di disabilità, il processo di accertamento, che sarà semplificato e affidato all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) e le linee guida per determinare i livelli essenziali delle prestazioni. Ma andiamo ad esaminare nel dettaglio le disposizioni dettate da entrambi i decreti e le conseguenti modifiche proposte per la Legge 104.

Primo decreto: definizione condizione disabilità e procedure di accertamento

Il primo decreto si concentra principalmente sulla definizione della condizione di disabilità e sulle procedure di accertamento di tale condizione, attraverso una revisione dei processi valutativi di base. Tale revisione mira a condurre a una valutazione multidimensionale, indispensabile per la redazione di un progetto di vita individuale per la persona disabile. L’obiettivo è eliminare gli ostacoli e attivare i sostegni necessari per esercitare le libertà e i diritti civili e sociali, scelti liberamente dalla persona stessa nei vari contesti di vita.

Le modifiche apportate alla Legge 104

Il decreto apporta modifiche significative al contesto normativo esistente, in particolare alla legge 104 del 1992, introducendo cinque innovazioni chiave:

  1. Ridefinizione dei concetti di disabilità, condizione di disabilità e persona con disabilità, adottando una prospettiva non più basata esclusivamente sulla visione medica dell’impedimento causato da malattia o patologia, ma considerandola come risultato dell’interazione tra individui con limitazioni e barriere comportamentali ed ambientali.
  2. Adozione, a partire dal 1° gennaio 2025, della classificazione internazionale delle malattie (ICD) dell’Organizzazione mondiale della sanità e della classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF), offrendo un quadro più completo della salute delle persone.
  3. Il procedimento unitario di valutazione di base viene affidato all’INPS a partire dal 1° gennaio 2026. La certificazione della condizione di disabilità sarà integrata con il processo di accertamento dell’invalidità civile, della cecità civile, della sordocecità, degli alunni con disabilità e degli elementi utili alla definizione della condizione di non autosufficienza. Il procedimento sarà avviato mediante un certificato medico introduttivo.
  4. A seguire una valutazione multidimensionale per la predisposizione del progetto di vita. Questa valutazione bio-psico-sociale coinvolgerà attivamente sia la persona con disabilità che le istituzioni assistenziali includendo gli elementi del contesto sociale concreto.
  5. Introduzione del diritto all’accomodamento ragionevole, ovvero la possibilità di apportare modifiche e adattamenti, purché non siano eccessivi o sproporzionati, al fine di garantire alle persone con disabilità il pieno godimento e l’esercizio dei diritti civili e sociali.

La sperimentazione delle nuove procedure sarà condotta per l’intero anno 2025, coinvolgendo una campionatura nell’applicazione delle disposizioni concernenti la valutazione di base e la valutazione multidimensionale. Parallelamente, si intende procedere all’adeguamento delle definizioni, dei criteri e delle modalità di accertamento attraverso questa fase di prova.

Secondo decreto: istituzione della Cabina di regia per definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP)

Il secondo decreto, approvato lo scorso 3 novembre dal Consiglio dei Ministri, disciplina, invece, l’istituzione della Cabina di regia per la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) a beneficio delle persone con disabilità, in conformità alla legge delega n. 227 del 22 dicembre 2021.

La Cabina di Regia, collocata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sarà composta, oltre ai Ministri competenti per la materia, da un delegato della Commissione tecnica per i fabbisogni standard, il Presidente della Conferenza delle Regioni, il Presidente dell’ANCI e i Presidenti delle Federazioni maggiormente rappresentative delle Associazioni in materia di disabilità.

Compiti della Cabina di regia sulla Legge 104

Spetterà alla Cabina di Regia:

  1. Condurre una prima analisi delle prestazioni essenziali destinate alle persone con disabilità.
  2. Formulare linee guida per l’individuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, con particolare attenzione al progetto individuale di vita
  3. Verificare le modalità di integrazione dei LEP con i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
  4. Coordinare e garantire la piena attuazione della normativa in materia di sussidi, incentivi e agevolazioni per le persone con disabilità, considerando anche le tutele previste dalla normativa sull’invalidità civile.

In aggiunta, la Cabina di Regia delineerà modalità operative specifiche, incentivando la collaborazione tra pubblico, privati e terzo settore, al fine di garantire il conseguimento degli obiettivi prefissati. Inoltre, contribuirà a formulare le linee guida per l’allocazione delle risorse destinate alla concezione e attuazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato. Tale processo sarà orientato conformemente ai principi di sussidiarietà e differenziazione, nonché in coerenza con i modelli territoriali di assistenza integrata.

 

 

 

 

Advertisement

Rifiuto di trasformazione da part time a full time: quando è legittimo il licenziamento

0
Trasformazione contratto di lavoro da part time a full time: quando il licenziamento è legittimo
Trasformazione contratto di lavoro da part time a full time: la Corte di Cassazione chiarisce quando il licenziamento è legittimo con ordinanza n. 29337/2023 - Diritto-lavoro.com Foto crediti: Pinterest

Con l’ordinanza n. 29337 emessa il 23 ottobre 2023, la Corte di Cassazione ha stabilito che un dipendente che rifiuti di convertire il suo contratto da tempo parziale a tempo pieno può essere sottoposto a licenziamento. Tuttavia, la motivazione di tale licenziamento non può derivare direttamente dal rifiuto in sé, ma deve essere basata sull’impossibilità da parte dell’azienda di sfruttare adeguatamente la sua prestazione a tempo parziale.

La decisione della Corte di Cassazione è stata una pietra miliare nella definizione delle regole che disciplinano il licenziamento in questi contesti, in particolare ha fornito importanti chiarimenti sull’interpretazione dell’articolo 8, comma 1, del Decreto Legislativo 81/2015, che regola le trasformazioni dei contratti di lavoro. Questo nuovo orientamento giuridico pone al centro dell’attenzione la necessità di equilibrare i diritti e gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei dipendenti, creando un quadro più chiaro in cui le decisioni in merito ai cambiamenti di contratto e orario lavorativo devono essere prese.

Trasformazione contratto di lavoro da part time a full time: quando il licenziamento è legittimo
Trasformazione contratto di lavoro da part time a full time: la Corte di Cassazione chiarisce quando il licenziamento è legittimo con ordinanza n. 29337/2023 – Diritto-lavoro.com
Foto crediti: Pinterest

Il contesto normativo

Eseguiamo un’analisi del contesto normativo in merito ai licenziamenti dovuti a modifiche dell’orario di lavoro. Secondo il Decreto legislativo n. 81/2015, il licenziamento di un dipendente non può avvenire solamente a causa del suo rifiuto di accettare una modifica del proprio contratto, passando da part-time a full-time o viceversa. Tuttavia, è importante notare che la Corte di Cassazione ha stabilito che ci sono situazioni in cui tale licenziamento può essere considerato legittimo per ragioni oggettive, cioè, motivato da esigenze organizzative ed economiche dell’azienda.

Il fatto oggetto dell’ordinanza n. 29337/2023

La situazione in questione, oggetto della recente ordinanza emessa dalla Corte di Cassazione il 23 ottobre scorso, ha origine dalla contestazione del licenziamento di una dipendente da parte di una Srl. La dipendente lavorava a tempo parziale, svolgendo 20 ore settimanali, e aveva deciso di impugnare il licenziamento, nel quale era stata anche cancellata la sua posizione lavorativa.

La donna ha sostenuto che la vera ragione alla base del suo licenziamento era una ritorsione da parte dell’azienda a seguito del suo rifiuto di accettare la proposta di trasformare il suo contratto da part-time a full-time, con un impegno di 36 o 40 ore settimanali. Questa affermazione era basata anche sul fatto che poco prima del suo licenziamento, l’azienda aveva assunto un nuovo dipendente con mansioni simili alle sue.

In dettaglio, la sua impugnazione del licenziamento si basava sull’argomento che l’incremento del carico di lavoro legato all’aumento del numero di clienti non giustificava l’eliminazione del suo posto di lavoro a tempo parziale e l’assunzione di un altro dipendente a tempo pieno.

La decisione della Corte d’Appello

Nel corso del procedimento giudiziario, mentre il tribunale di prima istanza aveva emesso una sentenza favorevole all’azienda, in appello si è verificato un ribaltamento di tale decisione. Nella seconda istanza, la Corte d’Appello ha accolto il ricorso presentato dalla lavoratrice, sostenendo che le ragioni addotte dal datore di lavoro per il licenziamento erano prive di fondamento, dichiarando pertanto l’illiceità del licenziamento dovuto al suo rifiuto di accettare la trasformazione del suo contratto da part-time a full-time.

Di conseguenza, la Corte d’Appello ha ordinato il reinserimento della dipendente nel suo posto di lavoro, stabilendo un indennizzo basato sul suo ultimo stipendio e calcolato dal momento del licenziamento fino al suo effettivo ritorno in azienda. Inoltre, è stata imposta l’obbligazione di versare i contributi previdenziali e assistenziali.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nella sua pronuncia che ha annullato la decisione della corte d’appello, ha inizialmente notato che l’articolo 8, comma 1, del Decreto Legislativo 81/2015 stabilisce che il rifiuto del lavoratore di convertire il suo contratto a tempo pieno in un contratto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce un motivo valido per il licenziamento.

Tuttavia, secondo il parere dei giudici di legittimità, questo principio generale ammette un’eccezione quando il datore di lavoro è in grado di dimostrare:

  • La presenza di effettive necessità economiche e organizzative che rendono impossibile il mantenimento del contratto a tempo parziale e richiedono un orario diverso;
  • La proposta fatta al dipendente di convertire il contratto a tempo pieno e il suo rifiuto;
  • L’esistenza di un legame causale tra le esigenze di aumento dell’orario e il licenziamento.

La sentenza sottolinea che, ai fini della validità del licenziamento, è richiesta non solo la prova delle ragioni effettive che giustificano il cambiamento dell’orario, ma anche la dimostrazione dell’impossibilità di utilizzare diversamente la prestazione lavorativa con orari differenti. Quest’ultimo elemento è fondamentale per costituire un giustificato motivo oggettivo.

Nel caso specifico, la Corte Suprema ha ritenuto che l’azienda abbia soddisfatto il suddetto onere probatorio, accogliendo quindi il ricorso presentato dalla società e confermando la legittimità del licenziamento.

Advertisement

Licenziamento disciplinare: il valore probatorio dell’assoluzione penale

0
Licenziamento disciplinare: sentenza penale di assoluzione vale come prova atipica
Licenziamento disciplinare: sentenza penale di assoluzione vale come prova atipica - Diritto-lavoro.com Foto crediti: Pinterest

La Suprema Corte di Cassazione ha emesso un’importante pronuncia volta a definire il peso probatorio delle sentenze penali di assoluzione in contesti giuridici concernenti il licenziamento disciplinare.

Licenziamento disciplinare: sentenza penale di assoluzione vale come prova atipica
Licenziamento disciplinare: sentenza penale di assoluzione vale come prova atipica – Diritto-lavoro.com
Foto crediti: Pinterest

Con l’ordinanza numero 26042, datata 7 settembre 2023, la Cassazione ha consolidato l’interpretazione giuridica secondo la quale una sentenza penale di assoluzione può essere impiegata quale elemento di prova atipico nel contesto di una controversia civile inerente a un licenziamento disciplinare.

Il fatto di licenziamento disciplinare

Nel caso in questione, si trattava di un dipendente assegnato all’Ufficio Spedizioni. Lo stesso era stato accusato di aver falsificato alcuni Documenti di Accompagnamento Semplificato, comportando così la sottrazione di una quantità significativa di carburante. A seguito di questa condotta, il dipendente è stato coinvolto in un procedimento penale, ma è stato successivamente assolto dalle accuse. Tuttavia, la sua datrice di lavoro ha proceduto al licenziamento.

Il dipendente ha contestato il suo licenziamento, che è stato successivamente annullato dal Tribunale competente, con un ordine di reintegrazione nel suo precedente ruolo lavorativo.

La Corte territoriale, a cui la datrice di lavoro ha presentato reclamo, ha confermato la decisione del giudice di prima istanza. Accordando rilevanza alla sentenza penale di assoluzione per i fatti oggetto di procedura disciplinare.

La società ha successivamente presentato un ricorso in cassazione contro la sentenza emessa dalla Corte d’appello.

I punti su cui si fonda la decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, riguardo alla regolamentazione delle relazioni tra il procedimento penale e quello civile, osserva che:

  • ai sensi dell’art. 652 c.p.p. (nell’ambito del giudizio civile di danni) e dell’articolo 654 c.p.p. (nell’ambito di altri giudizi civili), il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo se contenga una specifica affermazione circa l’insussistenza del fatto o della partecipazione dell’imputato, non quando l’assoluzione si basi sull’insufficienza di prove.
  • Nei confronti dell’imputato, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata a seguito di dibattimento, ha valore di giudicato nel giudizio civile. Se il riconoscimento di un diritto dipende dagli stessi fatti materiali oggetto del processo penale, ma la qualificazione giuridica di questi fatti rimane impregiudicata.
  • Il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può fare uso delle prove raccolte nel processo penale, già definito, sottoponendole ad un esame critico mediante un confronto con quelle emerse nel processo civile.
  • Anche se la sentenza penale irrevocabile sia priva di efficacia extra-penale, il giudice civile è comunque tenuto, nella doverosa completa e autonoma rivalutazione del fatto, a considerare gli elementi di prova acquisiti in sede penale.
  • La sentenza penale, benché priva di autorità definitiva nella causa civile per la determinazione dei fatti materiali in questione, impone comunque al giudice civile il dovere di considerarla. Tale sentenza può fornire al giudice civile elementi informativi relativi a ciò che è stato stabilito nel procedimento penale, pur senza costituire un vincolo cogente.

Applicando questi principi al caso di specie, la Cassazione ha confermato che l’assoluzione del lavoratore per l’accusa di aver compilato documenti falsi costituisce una base legittima per l’annullamento del licenziamento disciplinare. La partecipazione del datore di lavoro come parte civile nel processo penale non ha influenzato questa decisione.

Di conseguenza, il ricorso presentato dalla società è stato respinto dalla Suprema Corte.

Advertisement

Diritto climatico: come gli Usa stanno cercando di abbattere le emissioni

0
smog usa diritto climatico
Negli Usa azioni più decise sul piano legislativo per abbattere l'inquinamento. Foto Twitter @StreetsblogUSA

Si parla sempre più frequentemente di giustizia climatica, tanto che in diversi paesi, a cominciare dagli Usa, si è sviluppato un vero e proprio diritto climatico. Il clima da tempo non è più soltanto appannaggio della meteorologia. Bensì è sempre di più un tema che avvolge il dibattito pubblico nelle società moderne, siano esse appartenenti ai paesi più ricchi o a quelli in via di sviluppo. 

Così da un lato per la prima volta nella storia un Pontefice, l’attuale, papa Francesco, dedica ben due testi, un’enciclica  e un’esortazione apostolica, alla cura dell’ambiente e alla salvaguardia del pianeta. Dall’altro le legislazioni accrescono i propri obiettivi di regolamentazione delle questioni climatiche, energetiche e relative alle emissioni inquinanti.

Usa, incentivi alle imprese

Norme, leggi, prassi e consuetudini giuridiche sono materia di intervento del legislatore soprattutto negli Stati Uniti. Già nell’agosto 2022 il presidente Usa, Joe Biden, ha fatto la storia firmando la legge sulla riduzione dell’inflazione (Inflation Reduction Act, IRA). Un insieme di normative che modificheranno la capacità della prima superpotenza mondiale di affrontare il cambiamento climatico. E potranno accelerare lo sviluppo e la diffusione di un’ampia gamma di tecnologie per il clima e l’energia pulita grazie ai 369 miliardi di dollari che grazie alla legge si stanziano a questi fini.

Negli Usa si stima che l’Inflation Reduction Act possa portare a una riduzione delle emissioni inquinanti del 42% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. Con questo provvedimento gli Usa espandono i crediti d’imposta federali per l’energia pulita e stabiliscono programmi per incentivare le imprese e i consumatori a implementare una serie di tecnologie energetiche pulite.

Ciò significa che le agenzie federali, come il Dipartimento del Tesoro (Treasury), l’Internal Revenue Service (IRS), il Dipartimento dell’Energia (DOE) e l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA) hanno molto lavoro da fare. Occorre infatti garantire che gli investimenti federali siano accessibili, equi e rispettino l’intento dell’Inflation Reduction Act.

Effetti dell’Inflation Reduction Act

Un anno dopo abbiamo già iniziato a vedere i benefici di questo storico finanziamento, sostiene il sito di Clean Air Task Force. I fondi federali stanno arrivando alle comunità e le agenzie federali stanno sviluppando linee guida e cercando input per implementare gli incentivi fiscali.

È importante che i benefici economici, ambientali e di salute pubblica della legge siano distribuiti in modo equo ed efficiente. Le agenzie federali degli Usa richiedono piani di benefici per la comunità come parte dei processi di richiesta di sovvenzioni. Offrono risorse per l’assistenza tecnica alle comunità meno servite. Pubblicano nuovi piani d’azione per l’equità. Nuove risorse aiutano anche a identificare e sostenere le comunità energetiche, le comunità rurali e le tribù dei nativi.

I crediti d’imposta dell’Infation Reduction Act degli Usa, sottolinea inline Clean Air Task Force, per loro stessa concezione, promuovono l’equità. E consentono a un numero maggiore di gruppi di accedere ai crediti d’imposta rispetto al passato con una retribuzione diretta e fornendo maggiori incentivi per salari equi, apprendistato e costruzioni nelle comunità energetiche. Quest’anno il ministero del Tesoro degli Stati Uniti ha pubblicato una guida per sostenere questi obiettivi.

Advertisement

Disoccupazione agricola: cos’è e come richiederla

0
Disoccupazione agricola
Agricoltore - DirittoLavoro

L’INPS mette a disposizione di chi si trova in uno stato di disoccupazione diverse forme di sostegno al reddito. Questo vale anche per coloro che lavorano nel settore agricolo. Vediamo più nel dettaglio cosa intende per disoccupazione agricola e quali sono i requisiti per poterla ottenere.

Anche per chi lavora nel settore agricolo è prevista un’indennità da parte dell’INPS. La disoccupazione agricola, così come per le altre forme di sostegno al reddito, necessita tuttavia di particolari requisiti per poter essere richiesta. In questo caso si parla di un’erogazione economica a favore del disoccupato e corrisponde al numero di giornate lavorate.

Cosa s’intende per disoccupazione agricola

La disoccupazione agricola prevista dall’INPS consiste in un sostegno economico fornito ai lavori nel settore agricolo che si trovano senza occupazione. Possono accedervi i lavoratori dipendenti e soggetti equiparati. Per poterla richiedere, però, occorre aver svolto un lavoro con relativi contributi versati per almeno 102 giornate nel 2023 (per quello che concerne le misure dell’anno in corso). L’entità del sostegno varia a seconda delle categorie, per cui si parla del 40% della retribuzione per gli operai a tempo determinato del settore agricolo che hanno perso il lavoro. Mentre spetta il 30% della retribuzione per gli operai a tempo indeterminato. Da come si può evincere, l’importo non è uguale per tutti e dipende dal numero delle giornate lavorate.

Alla disoccupazione agricola possono accedere i lavoratori dell’omonimo settore che rispondono a determinati requisiti. Per l’anno 2023 possono accedervi gli operai agricoli, lavoratori a tempo determinato, che sono iscritti agli elenchi dei lavoratori agricoli dipendenti. La disoccupazione agricola, per l’anno in corso, spetta anche agli operai agricoli, lavoratori a tempo indeterminato, che sono stati assunti o licenziati durante l’anno, con eventuali periodi di mancata occupazione al di fuori del contratto. Alle due categorie elencante si aggiungono anche i piccoli coloni, i compartecipanti familiari e i piccoli coltivatori diretti con iscrizione agli elenchi nominativi che integrano fino a 51 giornate tramite versamenti volontari.

Accesso ‘consentito’ e accesso ‘negato’ alla domanda

Si rischia di perdere l’accesso alla richiesta se non si rispettano i tempi, oppure se si è iscritti ad una gestione autonoma o alla Gestione Separata INPS per tutto l’anno. Inoltre, chi riceve una pensione diretta o chi ha lavorato in via prevalente in altri settori non può richiedere l’indennità. Importante sottolineare, poi, così come per la Naspi e la Dis-Coll, anche la disoccupazione agricola spetta solo a chi ha perso il lavoro involontariamente e non per dimissione volontaria (ovviamente sempre con le dovute e precise eccezioni, come ad esempio le dimissioni per giusta causa).

È necessario, inoltre, che i beneficiari abbiano almeno due anni di anzianità nell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria e almeno 102 giornate contributive versate. Per maggiore chiarezza l’INPS specifica anche quali sono le modalità per poter richiedere l’accesso alla disoccupazione agricola. In questo caso, è necessario procedere tra il 1 gennaio e il 31 marzo dell’anno successivo a quello a cui si riferisce l’indennità. La domanda si presenta all’ente previdenziale tramite i canali ufficiali (fisici o digitali) o attraverso un patronato. Dopo che la misura risulta approvata l’INPS erogherà l’importo spettato.

Advertisement

Dimissioni: quanto tempo prima si da il preavviso

0
Dimissioni
Firmare dimissioni - Diritto Lavoro

In caso di dimissioni esistono delle tempistiche da rispettare che dipendono da determinate circostante relative al contratto. A tal proposito è bene sapere che esiste un tempo di preavviso minimo. 

Per dimissioni si intende l’atto attraverso il quale il lavoratore esprime la sua volontà ad interrompere il rapporto di lavoro. Tuttavia, quest’azione può avvenire in tronco solo per determinate cause legittime, nella maggior parte dei casi occorre un preavviso. Quest’ultimo, infatti, serve per concedere al datore di lavoro il tempo necessario per trovare un sostituto o riorganizzare l’attività produttiva. La durata del preavviso è fissata dai CCNL (Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro). In assenza di questo periodo si parla di mancato preavviso che comporta anche conseguenze economiche. Tuttavia, datore e dipendente possono raggiungere un accordo che varia dal tempo fissato generalmente.

Dimissioni per tempo determinato e indeterminato

Secondo l’Art. 2118 del Codice Civile, la legge concede ad ogni lavoratore la possibilità di poter cessare il proprio rapporto di lavoro attraverso le dimissioni. Assodata la necessità del preavviso, si può dire innanzitutto che quest’ultimo varia a seconda della tipologia di contratto o al settore specifico nel quale si è impiegati. Nel caso di un contratto a tempo indeterminato, per il quale i preavviso è imposto trattandosi di una sorta di ‘imprevisto’, il dipendente non deve rispettare i tempi solo in determinati casi specifici. Questi sono: dimissioni per giusta causa da un rapporto a tempo indeterminato; dimissioni per giusta causa da un contratto a termine; dimissioni nel periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento ai sensi della normativa sulla maternità (dall’inizio della gravidanza fino ad un anno di età del bambino); dimissioni durante il periodo di prova.

Esistono poi assenze precise per il quale il preavviso non decorre e si tratta di: malattia, maternità, infortunio o ferie. In questo caso il conteggio del preavviso riparte dal giorno di rientro a lavoro. Nel caso di tempo determinato, è possibile dimettersi solo per giusta causa o in prova e quindi non esiste un preavviso. Questa tipologia di contratto, infatti, prevede già un termine temporale e procedere con le dimissioni potrebbe comportare l’incorrere in un risarcimento al datore.

Come calcolare il preavviso

Per calcolare i giorni di preavviso delle dimissioni, bisogna fare riferimento al CCNL specifico, tenendo presente che esistono alcune variabili da considerare. Queste sono: tipologia contratto CCNL; settore di riferimento; livello e mansioni; anzianità lavorativa;
qualifica specifica. In genere, si può dire che a livelli contrattuali elevati corrispondono preavvisi più lunghi, rispetto ad un lavoratore con un inquadramento più basso. Inoltre, nota da non sottovalutare il fatto che molti CCNL dispongono che il preavviso cominci a decorrere non dalla comunicazione al datore, bensì da una data precisa come il 1° o il 15° giorno del mese.

In ultima istanza è il caso di sottolineare che dal 12 marzo 2016 le dimissioni dei lavoratori subordinati devono essere presentate al datore di lavoro esclusivamente in via telematica o online. L’invio avviene tramite PEC, attraverso un modulo standard sul sito del Ministero del Lavoro (ClicLavoro) che esclude il rischio di alterazioni e garantisce una data certa di trasmissione. Il modulo può essere inviato dal lavoratore in autonomia o rivolgendosi a intermediari abilitati. In questo caso la decorrenza corrisponde con la data di trasmissione del modulo.

Advertisement

Contratti a termine: chiarimenti del Ministero del Lavoro sulla nuova normativa

0
Contratti a termine: chiarimenti del Ministero del Lavoro sulla nuova normativa
Contratti a termine: chiarimenti del Ministero del Lavoro sulla nuova normativa - Diritto-lavoro.com Foto crediti: Pinterest

Il testo della Circolare emanata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, n. 9 del 9 ottobre 2023, offre una serie di chiarimenti in merito alle modifiche apportate all’articolo 24 del Decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, noto anche come “decreto lavoro”, successivamente convertito in legge il 3 luglio 2023 con la Legge numero 85. Questi chiarimenti riguardano, in particolare, la disciplina dei contratti a termine e dei contratti di somministrazione alla luce delle nuove disposizioni introdotte da tale legislazione.

Contratti a termine: chiarimenti del Ministero del Lavoro sulla nuova normativa
Contratti a termine: chiarimenti del Ministero del Lavoro sulla nuova normativa – Diritto-lavoro.com
Foto crediti: Pinterest

La circolare 9/2023 sopra menzionata sottolinea che il Decreto Lavoro non ha apportato modifiche alla normativa riguardante i seguenti aspetti:

  1. La durata massima dei contratti a termine rimane invariata, mantenendo un limite di 24 mesi.
  2. È ancora possibile stipulare un ulteriore contratto a termine con una durata massima di 12 mesi presso la sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
  3. Il numero massimo di proroghe di un contratto a termine (cioè, 4 proroghe entro un periodo di 24 mesi) resta invariato.
  4. Le regole relative alla transizione tra un contratto a termine e un altro rimangono in vigore.

Il Decreto-legge n. 48/2023 ha, invece, apportato modifiche significative alla normativa riguardante le causali, le proroghe, i rinnovi e le modalità di calcolo dei limiti percentuali riguardanti il numero di lavoratori che possono essere assunti tramite contratti di somministrazione.

Le nuove causali per i contratti a termine

Come è noto, in conformità con la recente legislazione che revoca e sostituisce le casuali specificate nel Decreto Dignità, è consentito stipulare, rinnovare o prorogare un contratto a termine per un periodo che ecceda i 12 mesi (fermo restando il limite complessivo di 24 mesi) nei seguenti casi:

  1. nei casi previsti dai contratti collettivi. Il Ministero rimarca come la riforma ha voluto enfatizzare il ruolo della contrattazione collettiva nel determinare le situazioni che possono consentire l’apposizione ai contratti di lavoro un termine superiore a dodici mesi, con comunque una durata massima di ventiquattro mesi.
  2. in mancanza di previsioni come quelle menzionate precedentemente, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, definite dalle parti contraenti (datore di lavoro e lavoratore). È importante notare che questa possibilità è temporanea e non può estendersi oltre la data del 30 aprile 2024, riferita alla firma del contratto di lavoro. Pertanto, la durata del contratto può superare il 30 aprile 2024 solo se il contratto stesso è stato stipulato precedentemente.
  3. per la sostituzione di altri lavoratori. Il datore di lavoro è tenuto a specificare nel contratto le ragioni effettive e concrete della sostituzione, che è proibita per i lavoratori che esercitano il diritto di sciopero.

Queste nuove causali non si applicano ai contratti a termine stipulati da:

  1. Enti pubblici;
  2. Università private, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione;
  3. Enti privati di ricerca e lavoratori che svolgono attività di insegnamento, ricerca scientifica o tecnologica, trasferimento di know-how, supporto all’innovazione, assistenza tecnica alla stessa o coordinamento e direzione.

Proroghe e rinnovi operati senza causale nei primi dodici mesi

La circolare fornisce importanti delucidazioni in merito al periodo di dodici mesi senza l’obbligo di causale. Il Ministero del Lavoro conferma che, in seguito all’introduzione del Decreto Lavoro, è stata instaurata una regolamentazione uniforme per le proroghe e i rinnovi di contratti a termine, i quali possono avvenire liberamente nei primi dodici mesi di durata complessiva, senza necessità di indicare alcuna causale.

In relazione alla norma stabilita dalla legge di conversione (L. 85/2023) del Decreto Lavoro, che rende irrilevante il superamento dei 12 mesi di durata senza causale per i contratti stipulati prima del 5 maggio 2023 (data di entrata in vigore del D.L. 48/2023), è stato chiarito che l’espressione “contratti stipulati” si riferisce sia ai rinnovi di contratti a termine preesistenti sia alle proroghe di contratti già in essere alla data del 5 maggio 2023. Di conseguenza, a partire dal 5 maggio 2023, i datori di lavoro potranno liberamente rinnovare un contratto a termine per un ulteriore periodo massimo di 12 mesi senza la necessità di specificare le causali che lo giustificano.

A titolo esemplificativo, la circolare presenta un caso chiarificatore: se un contratto a termine stipulato prima del 5 maggio 2023 giunge a scadenza dopo tale data, lo stesso contratto potrà essere rinnovato o prorogato “liberamente” per un periodo aggiuntivo di dodici mesi (nel rispetto del limite massimo di 24 mesi di durata). Diversamente, se tra il 5 maggio 2023 e il 4 luglio 2023 le parti prolungano un contratto a termine per sei mesi, sarà possibile un ulteriore periodo senza causale, con una durata non superiore a sei mesi.

La circolare fornisce chiarezza anche sul fatto che per applicare questa normativa è necessario verificare se la stipula del contratto, il suo rinnovo o la sua proroga sono avvenuti prima o dopo il 5 maggio.

Gli interventi sulla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (staff leasing)

La legge di conversione interviene anche per apportare modifiche alla disciplina relativa alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, allo scopo di superare alcune restrizioni applicabili a specifiche categorie di lavoratori. In particolare, si prevede che, al fine di rispettare il limite del 20% relativo ai lavoratori impiegati con contratto di somministrazione a tempo indeterminato presso la medesima azienda, non saranno considerati i lavoratori somministrati assunti dall’agenzia di somministrazione mediante contratto di apprendistato.

Inoltre, si stabilisce espressamente che non si applicheranno i limiti quantitativi alla somministrazione a tempo indeterminato per alcune categorie di lavoratori, che sono definiti in modo specifico e in modo tassativo. Queste categorie includono i soggetti disoccupati che abbiano beneficiato per almeno sei mesi di prestazioni di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, nonché i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, conformemente alla definizione fornita nel decreto ministeriale del 17 ottobre 2017.

Advertisement

Fabio Panetta, chi è il nuovo governatore della Banca d’Italia

0
panetta bankitalia governatore
Il neo Governatore della Banca d'Italia, Fabio Panetta, 64 anni. Foto Ansa/Alessandro Di Meo

La Banca d’Italia, con un comunicato istituzionale di poche righe, annuncia l’avvio dell’epoca di Fabio Panetta alla guida di Via Nazionale. E anche, contestualmente, di Piero Cipollone nel board della Bce, la Banca centrale europea.

Palazzo Koch affida poi gli auguri ai profili social: “Buon lavoro Governatore. Bentornato con noi in Banca d’Italia“. Un momento non semplice quello che Panetta attende nel pieno di una vera a e propria tempesta tra i picchi dell’inflazione, una politica monetaria restrittiva, bassa crescita e tensioni internazionali moltiplicate.

Il nuovo governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta ha inviato una email al personale dell’istituto di Via Veneto. “Continuare ad applicare il metodo di lavoro che ci è consueto, basato sul confronto delle idee, sul rigore delle analisi, sull’imparzialità e sulla trasparenza delle decisioni, contribuirà all’orgoglio di appartenere al nostro Istituto e all’efficacia della nostra azione” ha scritto.

Panetta, il ringraziamento a Visco

Continuità – ha sottolineato nel messaggio – non vuol dire conservazione. Dovremo aprirci pienamente al cambiamento e all’innovazione, come è avvenuto in passato nei momenti importanti della storia della Banca d’Italia“. Panetta ha poi rivolto un pensierograto e affettuoso a Ignazio Visco (il Governatore uscente, ndr.), al quale mi lega una consuetudine di lavoro che è divenuta nel tempo un rapporto di fiducia e di amicizia“. Panetta ha sottolineato come “da tutti i Governatori con cui ho interagito ho tratto insegnamenti. Insegnamenti che cercherò di mettere a frutto nell’impegno che ci attende per una Banca d’Italia moderna, efficiente e inclusiva, al servizio dell’Italia e dell’Europa“.

La nomina di Panetta risale allo scorso 28 giugno. Dopo giorni di alta tensione, il Governo si è ricompattato scegliendolo per la guida della Banca d’Italia. Panetta era stata la prima opzione per la scelta del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Nove mesi più tardi Giorgia Meloni ha puntato proprio su Panetta e il Consiglio dei ministri lo ha indicato come Governatore. Una decisione che è arrivata proprio nella giornata in cui l’esecutivo ha preso una posizione decisa contro i continui rialzi dei tassi di interesse della Bce.

Un curriculum importante

A inizio giugno Panetta aveva sostenuto in un’intervista a Le Monde che la Bce era “non lontana” dalla fine del suo rialzo dei tassi, notando che “l’inflazione è troppo alta, ma non c’è motivo di preoccuparsi“. D’ora in avanti dovrà affrontare lo scenario da Palazzo Koch, dove ha già lavorato per sette anni, fino al 2019, come vice direttore generale e come direttore generale. Ed effettivamente la banca centrale europea ha interrotto pochi giorni fa il ciclo dei rialzi anche a fronte di un’inflazione che mostra i primi segni di cedimento.

Panetta sa quindi come muoversi nella riservata ala del piano nobile di Palazzo Koch chiamata ‘acquario’, dove si riunisce il direttorio e dove è situato l’ufficio del Governatore. A quella scrivania che fu di Bonaldo Stringher, Luigi Einaudi, Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi, trova i vari dossier. Come la vigilanza sulle banche, ora rafforzate ma alle prese con il rallentamento del Pil. Ma anche l’analisi dell’economia italiana e un rapporto con il Governo non sempre facilissimo visto appunto l’atteggiamento critico e a volte ostile di alcune frange della maggioranza verso la Bce e la Ue.

 

Advertisement

I nostri SocialMedia

27,994FansMi piace
2,820FollowerSegui

Ultime notizie

Fitto Roma candidato commissario Ue

Commissione Ue, l’Italia indica Fitto quale candidato commissario

0
In Consiglio dei ministri, il 30 agosto, Giorgia Meloni ha confermato che sarà Raffaele Fitto il candidato commissario europeo indicato dal suo esecutivo. E...