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Permesso allattamento: cos’è e come funziona

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Permesso allattamento
Madre e figlio neonato - Diritto Lavoro

Tra le misure atte a tutelare le figuri genitoriali, specialmente nei primi anni di vita dei bambini, anche il permesso allattamento. 

Il permesso allattamento è una misura che offre la possibilità di usufruire di ore di riposo retribuito, nelle quali il genitore può assentarsi per prendersi cura del figlio. Il riferimento normativo di tale misura è il D.lgs. 151/2001 ovvero il Testo Unico sulla maternità e paternità. A tal proposito, primo importante chiarimento dovuto fa riferimento al fatto che tale permesso spetta anche in caso di adozione e affidamento, nel primo anno di ingresso del figlio.

Misura prevista per entrambi i genitori

Le ore giornaliere di permesso allattamento sono due e possono essere consecutive. Il genitore, dunque, può in questo periodo anche recarsi a lavoro due ore dopo l’orario effettivo di ingresso o uscire due ore prime dalla fine dell’attività lavorativa. Altro importante aspetto da chiarire è che, sebbene lo scopo di queste ore sia pensato per la nutrizione del figlio da parte della madre, il permesso allattamento in taluni casi può spettare anche al padre. In questo ultimo caso, tuttavia, occorre rimanere all’interno di condizioni precise.

Il permesso allattamento può spettare al padre: nei casi in cui non vi sia la madre (considerando anche grave infermità); nei casi in cui la madre sia una lavoratrice dipendente e non si avvale del permesso; nei casi in cui la madre sia una lavoratrice indipendente e non beneficiaria della misura; in caso di affidamento esclusivo al padre.

Chiariti questi aspetti è bene specificare che, in genere, le ore giornaliere per il permesso allettamento sono due, ma in alcuni casi la durata può variare. Come chiarisce la legge, tale durata può variare, innanzitutto, se l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a 6 ore. In questo caso il permesso cala ad un’ora. E la durata può variare anche se all’interno del luogo di lavoro è previsto un asilo nido o una struttura attrezzata per la cura del neonato. In questo secondo caso il permesso maternità è di mezz’ora. Nel caso di parto gemellare, invece, i permessi sono raddoppiati.

Come richiedere il permesso allattamento

Il permesso allettamento non è obbligatorio è dipende dal lavoratore la decisione di volerlo richiedere o meno. E anche il periodo temporale di quando utilizzarle è a discrezione dei genitori. Dunque, per esempio, se al termine dell’astensione obbligatoria la madre desidera tornare a lavorare, senza usufruire del congedo parentale, può richiedere il permesso allattamento. Come, allo stesso tempo, può decidere di utilizzare in modo frazionato il congedo parentale e i riposi per allattamento.

Per richiedere il permesso allattamento occorre fare una apposita domanda telematica all’INPS. Si può accedere all’area riservata tramite le credenziali SPID, CNS o Carta d’Identità elettronica 3.0. In alternativa, la domanda può inoltrata anche tramite Patronato o tramite contact center integrato dell’INPS. La retribuzione spettante in questo caso è pari alle ore lavorative. Il datore di lavoro dovrà inserire le ore di permesso in busta paga e poi potrà riprendere la somma dall’INPS tramite modello F24.

Infine, è bene chiarire che per quanto riguarda il permessi per allattamento non esiste alcuna variazione rispetto all’anzianità di servizio, né può andare ad incidere sulla maturazione di ferie, mensilità aggiuntive e altri permessi.

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Nord Italia destinato a spopolarsi: più che ‘inverno’ è glaciazione demografica

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glaciazione demografica nord italia
Foto X @HuffPostItalia

Milano e tutto il Nord Italia – una delle zone più ricche d’Europa – è a rischio di ‘glaciazione’ demografica. I decessi superano di gran lunga le nascite, come del resto in tutta Italia, uno dei paesi più ‘vecchi’ del mondo. Se non arriveranno presto nuovi emigrati dall’estero e non ci sarà un’inversione nel trend negativo delle nascite, entro il 2040 mancheranno 2,3 milioni di residenti. Ciò significa che si restringerà il mercato interno, così come i consumi e gli investimenti.

I dati parlano chiaro. Tra 17 anni si passerà dai 27,4 milioni di abitanti del Nord (dato del 2023) a 25,1 milioni. Lo si afferma in uno studio della Fondazione Nordest, partendo dal record negativo di natalità registrato lo scorso anno nel nostro Paese. Gli effetti più pesanti si vedranno in Lombardia: -673mila residenti entro il 2040. Ma anche in Piemonte (-493mila) e in Veneto (-387mila). Per il Veneto in particolare la Fondazione Nordest ipotizza che la popolazione diminuirà dagli attuali 4.849.553 residenti ai 4.688.294 del 2030. Per scendere ulteriormente ai 4.461.849 del 2040: una perdita dell’8%.

Il Nord quasi senza bambini

Nel dettaglio, l’Istat ha certificato l’undicesimo anno di calo delle nascite 2013. Rispetto ai 577mila del 2008, nel 2023 sono nati appena 379mila bambini. Un crollo dei numeri differenziato a livello regionale con riduzioni importanti al Nord. “Il numero medio di figli per donna che scende da 1,24 nel 2022 a 1,20 nel 2023, diminuisce in tutto il territorio nazionale“. Al Nord passa da 1,26 nel 2022 a 1,21 nel 2023, nel Centro da 1,15 a 1,12; il Mezzogiorno, con un tasso di fecondità totale pari a 1,24, il più alto tra le ripartizioni territoriali, registra una flessione inferiore rispetto all’1,26 del 2022.

Nel 2023 i nati residenti in Italia sono stati, come detto, 379mila con un tasso di natalità pari al 6,4 per mille (era 6,7 per mille nel 2022). La diminuzione delle nascite rispetto al 2022 è di 14mila unità (-3,6%). Dal 2008, ultimo anno in cui si è assistito in Italia a un aumento delle nascite, il calo è di 197mila unità (-34,2%). Il numero medio di figli per donna scende così da 1,24 nel 2022 a 1,20 nel 2023, avvicinandosi di molto al minimo storico di 1,19 figli registrato nel lontano 1995.

Residenti in calo in Italia

In Italia anche la popolazione residente è in lieve diminuzione. All’1 gennaio 2024 è pari a 58 milioni 990mila unità (dati provvisori), in calo di 7mila unità rispetto alla stessa data dell’anno precedente (-0,1 per mille abitanti). Confermando quanto già emerso nel 2022 (-33mila unità) prosegue il rallentamento del calo di popolazione che, dal 2014 al 2021 (-2,8 per mille in media annua), ha contraddistinto il nostro Paese nel suo insieme. La variazione della popolazione rivela un quadro eterogeneo. Nel Mezzogiorno la variazione è negativa (-4,1 per mille). Al Nord, invece, aumenta del 2,7 per mille. Stabile quella del Centro (+0,1 per mille).

Calano i decessi: nel 2023 sono 661mila, l’8% in meno sul 2022, con una diminuzione di 54mila unità sull’anno precedente. Il calo del numero totale coinvolge soprattutto la popolazione anziana. Il 75% della diminuzione rilevata interessa, in particolare, i cittadini con più di 80 anni, sia al Nord che altrove. Il calo della mortalità si traduce in un cospicuo balzo in avanti della speranza di vita alla nascita che si porta a 83,1 anni nel 2023, guadagnando sei mesi sul 2022. Tra gli uomini la speranza di vita alla nascita raggiunge gli 81,1 anni (+6 mesi sul 2022) mentre tra le donne si riscontra un dato di 85,2 anni e un guadagno sul 2022 leggermente inferiore a quello maschile (+5 mesi).

Ci sono più 80enni che bambini

All’1 gennaio 2024 la popolazione residente al Nord e in tutta Italia presenta un’età media di 46,6 anni, in crescita di due punti decimali (circa tre mesi) rispetto al primo gennaio 2023. La popolazione ultrasessantacinquenne, che nel suo insieme a inizio 2024 conta 14 milioni 358mila individui, costituisce il 24,3% della popolazione totale, contro il 24% dell’anno precedente. Aumenta il numero di ultraottantenni, i cosiddetti grandi anziani. Con 4 milioni 554mila persone, quasi 50mila in più rispetto a 12 mesi prima, questo contingente ha superato quello dei bambini sotto i 10 anni di età: 4 milioni 441mila individui. La Liguria è la regione più anziana. Il numero stimato di ultracentenari raggiunge a inizio 2024 il suo più alto livello storico, superando le 22mila e 500 unità, oltre 2mila in più rispetto all’anno precedente.

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Lavoro, ecco le lauree più richieste nei prossimi anni

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lauree lavoro Italia
Foto X @RaiNews

Per trovare lavoro una buona laurea serve e per questo è bene sapere quali sono i titoli di studio più utili nell’arco dei prossimi anni. A indicarli è il Sistema informativo Excelsior di Unioncamere nel recente report Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine. Fra il 2024 e il 2028 quasi 4 posti di lavoro su 10 saranno rivolti a personale con un titolo di studio di livello terziario. Quindi non solo università ma anche ITS Academy e accademie equiparate.

Poi, però, non tutte le lauree avranno lo stesso valore. Ce ne saranno alcune, infatti, che daranno nettamente maggiori opportunità. E non sempre sono quelle più scontate o pubblicizzate. Sul podio troviamo le aree afferenti alle discipline economico-statistiche, al settore medico-sanitario ma anche a quello dell’istruzione e della formazione. Oltre, naturalmente, alle più volte citate materie STEM (tecnico-scientifiche), ingegneria in cima.

Lavoro e titoli di studio

Le stime per il quinquennio 2024-2028 indicano che circa il 40% del fabbisogno occupazionale, equivalente a circa 1,2-1,3 milioni di lavoratori, riguarderà personale in possesso di una formazione terziaria. Un dato che si fa ancora più significativo se messo a paragone con il recente passato. Esaminando i dati Istat risulta che nel 2022 i lavoratori in possesso almeno di una laurea rappresentavano solo il 24% degli occupati.

Gli unici che potrebbero fare meglio sono giusto i diplomati tecnico-professionali, i quali sono attesi da 1,4-1,7 milioni di posti di lavoro, corrispondenti al 46% delle offerte totali. Mentre i diplomati liceali, al momento, sembrano quasi spacciati: mediamente appena il 4% delle occupazioni (120-145 mila unità) sarà dedicato a quanti si fermeranno dopo questo titolo. Il problema, nel caso dei diplomati è che non si è sempre si è consapevoli delle professioni più richieste con questo titolo, motivo per cui Unioncamere ha predisposto il punto informativo “Che ci faccio col diploma?” sul portale Skuola.net.

Lauree e percorsi formativi

A ogni modo, laurearsi resta una buona scelta per cercare poi un buon lavoro. Il momento dell’immatricolazione, però, potrebbe essere già una prima fonte di selezione. Tra i percorsi STEM – che dovrebbero offrire in media tra i 72mila e gli 82 mila posti di lavoro all’anno – quelli che spiccano di più in termini di fabbisogno atteso sono gli indirizzi ingegneristici. Oscillano tra le 36 e le 41mila unità all’anno. Da questo calcolo si deve escludere l’ingegneria civile, analizzata a parte e per la quale si prevede l’assorbimento di circa 13-15mila persone all’anno. Mentre l’ambito strettamente scientifico, a cui fanno capo matematica, fisica, informatica dovrebbe attestarsi sulle 12-14mila nuove unità lavorative annue.

Laureati e affini, infatti, saranno preziosi soprattutto per la pubblica amministrazione. Qui il fabbisogno di profili in possesso di un titolo di livello terziario dovrebbe schizzare al 79% del totale, un numero ben più alto di quello previsto per il settore privato, fermo al 27%. Tutto il contrario per quanto riguarda il fabbisogno dei profili in possesso di una formazione di livello secondario. Ma, di nuovo, a patto che siano di tipo tecnico-professionale. Per il lavoro, nel settore privato la richiesta di queste figure coprirà il 55% del suo fabbisogno, mentre nel pubblico la quota scende al 17%. L’appeal delle figure con un background liceale, invece, rimane residuale: 4% per la pubblica amministrazione, 5% per il privato.

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Garante Privacy: quando il dipendente ha accesso ai suoi dati personali?

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Privacy
Dati e privacy @Foto Crediti EnvatoElements - DirittoLavoro

L’Autorità Garante della Privacy chiarisce quando un dipendente può avere accesso ai suoi dati personali, evidenziando un importante principio legato al diritto del lavoro e alla riservatezza.

Con la newsletter GPDP n. 522 del 3 maggio 2024, l’Autorità Garante della Privacy chiarisce se un lavoratore dipendente abbia sempre accesso o meno ai suoi dati personali. A far scaturire l’esigenza di chiarire in questi giorni questo aspetto, un caso giudiziario in cui è stata coinvolta una lavoratrice e l’azienda presso la quale lavorava. La materia del caso: l’accesso ai propri dati personali da parte della dipendete.

Dal caso sulla privacy al diritto

La dipendente del caso citato aveva fatto un reclamo al Garante per la privacy, richiedendo un controllo sulla possibile violazione dei suoi dati personali. In particolare, la dipendente aveva chiesto l’accesso alla sua cartella, in seguito ad una sanzione disciplinare alla quale era stata sottoposta e che era scaturita nel licenziamento. Tuttavia, l’azienda non aveva accordato il permesso alla dipendente, limitandosi a fornire alcuni documenti che, a detta dell’azienda, potevano giustificare la sanzione, ma che non sono apparsi sufficienti alla lavoratrice per giustificare il licenziamento.

Nella newsletter sopracitata, l’Autorità Garante della Privacy ha fatto notare che solo dopo l’inizio dell’istruttoria di rito da parte dell’Autorità stessa, l’azienda in questione aveva acconsentito a fornire nuovi documenti. Dopo tutti i dovuti accertamenti del caso e gli ulteriori esami di conferma, il Garante per la privacy ha ricordato che, in linea generale, il diritto di accesso previsto dalla legge: “Mira a permettere all’interessato, o all’interessata, di avere il pieno controllo sui propri dati personali e di controllarne l’effettiva corrispondenza alla realtà“. Di conseguenza non può mai essere né limitato né circoscritto l’accesso ai propri dati.

Diritto tutelato anche dal Comitato europeo

Inoltre, in base alle disposizioni del Regolamento sulla protezione dei dati personali, altresì, il dipendente interessato all’accesso ai propri dati non è tenuto a fornire una motivazione circa l’esigenza dell’esercizio dei diritti e il titolare non ha il potere di sentenziare o indagare sulle motivazioni. Come chiarisce ancora il Garante della privacy, tale diritto rispetto al libero accesso ai propri dati personali è in coerenza con il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB), come emerge dai contenuti delle Linee guida sul diritto di accesso. Inoltre, sempre sulla stessa linea si trova un indirizzo giurisprudenziale della Corte di Giustizia UE.

Dunque, in conclusione, dall’esito dell’istruttoria l’Autorità Garante per la Privacy non ha potuto che dare ragione alla dipendete che aveva fatto reclamo per tutelare i suoi diritti nei confronti dell’azienda ex datrice di lavoro. Al termine della causa, il Garante ha sanzionato l’azienda con una multa dal valore di 20mila euro. Per stabilire l’importo l’Autorità Garante ha considerato sia la gravità che la natura della violazione, ma anche la durata a cui si è aggiunta la mancanza di casi simili in precedenza. In definitiva, volendo rispondere alla domanda che titola questo articolo, ovvero “Quando il dipendente ha accesso ai suoi dati personali?“, si può senza remore rispondere: sempre e senza essere tenuto a nessuna spiegazione.

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Dehors strutturali, scoppia la polemica

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Dehors locali pubblici Italia
Foto X @bbbb1_2_

Il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, ha scatenato una dura polemica da parte delle associazioni dei consumatori e di varie amministrazioni comunali sui dehors di bar, locali e ristoranti. “Siamo elaborando – ha dichiarato – all’interno del disegno di legge sulla concorrenza, un provvedimento per rendere strutturali i tavolini all’aperto. I dehors, così che siano anche un elemento di decoro urbano”.

La dichiarazione del ministro è arrivata a margine della Giornata della ristorazione, il 16 maggio. “Su questo provvedimento – ha detto Urso – ci stiamo confrontando con le associazioni settoriali e ovviamente anche con l’Anci, quindi con i Comuni. Pensiamo che possa essere un’occasione per rendere la ristorazione ancora più funzionale alla socialità e a quel decoro urbano che nei centri storici va sempre più affermato“.

In pratica il Governo Meloni ipotizza di inserire nel decreto legge Concorrenza una norma che vada nella direzione di rendere strutturale la normativa sui dehors, i tavolini all’aperto. Così da coniugare la fruizione degli spazi commerciali con quelli culturali e residenziali. “Su questo – ha scritto il ministro Urso su Twitter – siamo al lavoro con l’Anci e le soprintendenze. Affinché la norma possa essere frutto di una condivisione con tutte le parti coinvolte“.

Duro attacco del Codacons

I dehors liberi, però, sostiene il Codacons, associazione dei consumatori, “sono uno stupro ai danni dei centri storici e delle città. E un immenso regalo a bar e ristoranti sulla pelle dei cittadini“. Una bocciatura totale, dunque, del provvedimento che il ministro delle Imprese e del Made in Italy ha annunciato. “Nonostante non sussistano più i presupposti dell’emergenza Covid che avevano permesso a bar e ristoranti di occupare il suolo pubblico con un’invasione selvaggia di pedane e tavolini, il Governo vuole rendere strutturale una misura che ha causato solo caos e degrado” ha detto Carlo Rienzi, presidente del Codacons.

Dehors, ombrelloni, pedane, tavoli e sedie su strade e piazze arrecano un enorme danno ai cittadini, che restano privi di spazi pubblici e costretti a camminare facendo lo slalom tra le strutture piazzate da bar e ristoranti. Un caos che danneggia anche il decoro urbano e il turismo, rovinando l’immagine delle nostre città agli occhi dei visitatori stranieri. Senza contare l’abusivismo e l’assenza di controlli, che porta spesso all’occupazione di più spazio pubblico rispetto a quello consentito dai regolamenti locali“.

Stoppani (Fipe): “Dehors contrastano il degrado”

Di parere esattamente opposto, ovviamente, il presidente di Fipe-Confcommercio, Lino Enrico Stoppani. Sui dehors “è chiaro che siamo favorevoli” ai progetti per renderli strutturali. “Perché si mette mano a un tema molto delicato dove molto spesso c’è la fantasia delle amministrazioni comunali. C’è un tema di desertificazione commerciale. Allora il pubblico esercizio sta diventando uno strumento formidabile di rigenerazione urbana grazie anche alle occupazioni esterne che danno sicurezza, vivibilità, animazione. E contrastano il degrado che si vede nelle zone caratterizzate da desertificazione commerciale” ha osservato Stoppani. Il progetto anticipato dal ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, aggiunge Stoppani, “ha la finalità di favorire queste occupazioni esterne e semplificare gli adempimenti“. Per il presidente di Fipe, “sta cambiando il modo di usufruire le città“.

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Mantova, bonus affitto: 150 euro al mese per gli under 36

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Bonus affitto Mantova giovani under 36
Foto X @Reddo_it

Uomini e donne con meno di 36 anni, con famiglia o come single, avranno un incentivo economico per trasferirsi a vivere a Mantova. Il Comune ‘premierà’ con 150 euro al mese – per un anno – i giovani non residenti che si insedieranno in città.

Per ricevere il bonus affitto basta partecipare al bando Benvenuti in città destinato appunto a lavoratori under 36 (single o con famiglia) che spostino la residenza e paghino un canone di locazione abitativa di almeno 350 euro al mese. Il Comune di Mantova ha indetto, inoltre, anche un secondo bando, Abitare Borgochiesanuova. L’obiettivo è quello di sostenere i giovani e aiutarli sotto il profilo economico affinché lascino la la casa dei genitori. Si tratta di single, famiglie e nuovi residenti con reddito da lavoro. Potranno vivere in uno dei 67 nuovi appartamenti del quartiere.

Salari fermi e gli affitti aumentano

L’iniziativa dei bandi di Mantova nasce dal fatto che sul territorio comunale della città lombarda si stanno insediando alcuni importati poli industriali e logistici. In particolare quello dell’Adidas, che conterà in tutto 700 dipendenti. C’è poi quello della multinazionale svizzera Nestlé che richiamerà circa 500 lavoratori. Ma queste persone devono anche poter trovare un alloggio che gli consenta di vivere dignitosamente. Se si considerano le famiglie al seguito dei lavoratori è chiaro che stiamo parlando di migliaia di persone.

In questi giorni il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, ha presentato l’iniziativa. “La politica nazionale sembra non pensare a un problema reale e concreto che noi viviamo tutti i giorni” ha detto. “Il costo degli affitti aumenta, mentre i salari non crescono da anni. Sui salari non possiamo fare nulla, ma sul costo affitti con questa misura agganciamo alla offerta di nuovo lavoro. E Mantova ha una politica di incentivi per la residenza nella nostra città“.

Mantova, le condizioni per il bonus

Tramite il progetto Benvenuti in città il primo cittadino e la sua giunta mirano a rendere più attrattivi Mantova e il suo territorio per chi viene da fuori e pensa di insediarsi nell’area comunale. Per ottenere il contributo di 150 euro al mese occorre tuttavia osservare alcune condizioni. Bisogna, in primo luogo, dimostrare che si deve far fronte a un affitto di almeno 350 euro mensili (del resto con i prezzi attuali delle case è quasi impossibile trovare un canone di locazione inferiore).

Inoltre per poter accedere a questo aiuto da parte dell’amministrazione comunale i giovani come meno di 36 anni dovranno avere un reddito Isee compreso tra i 9.500 e i 40mila euro. Tutti gli altri lavoratori tra i 14mila e i 40mila euro all’anno. Come sopra accennato, oltre al contributo di 150 euro, il Comune di Mantova ha deciso di mettere a disposizione di giovani e famiglie che si trasferiscono nella città lombarda 67 nuovi appartamenti nel quartiere Borgochiesanuova.

Si tratta di una storica zona della città, dove è stata da poco completata un’importante opera di riqualificazione sul piano urbanistico ed edilizio. Insomma, l’obiettivo del sindaco Palazzi è che nessuno abbia più scuse per non voler andare a vivere e lavorare nella città che fu dei Gonzaga.

 

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Bonus badanti, fino a 3mila euro: come richiederlo

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Bonus badanti 2024
Foto Ansa/Daniel Da Zennaro

C’è tempo fino alla fine del prossimo anno ma è bene affrettarsi a chiedere il bonus badanti 2024. Una misura che il Governo ha varato durante il Consiglio dei ministri del 26 febbraio scorso. A disposizione ci sono 137 milioni di euro spendibili dal 2024 al 2028. Il contributo rientra negli aiuti previsti dal decreto sul PNRR e attinge, in particolare, al programma nazionale Giovani, donne e lavoro 2021-2027. 

Nel decreto PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) il Governo precisa che questo esonero contributivo ha lo scopo di promuovere il miglioramento del livello qualitativo e quantitativo dell’assistenza alle persone non autosufficienti. Serve inoltre a “favorire la regolarizzazione del lavoro di cura prestato al domicilio“. Nel decidere questa misura si è tenuto conto del fatto che gli anziani in Italia sono in aumento e che i non autosufficienti sono quasi 4 milioni di cittadini.

E inoltre che, secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Domina, nel 2022 si è registrata una diminuzione del 7,9% di assunzioni di colf e badanti. Il motivo è l’esaurimento degli effetti della sanatoria che ha permesso di regolarizzare molti lavoratori domestici stranieri. Gli assunti in regola sono tornati ai livelli del 2016. Tuttavia, si deve anche segnalare che, secondo i dati di Family Care, l’agenzia per il lavoro autorizzata dal Ministero del Lavoro, nel corso del 2023 le assunzioni di badanti sono aumentate del 17%.

Il bonus badanti 2024

Il bonus badanti 2024 è un esonero contributivo previsto per le persone di almeno 80 anni di età, non autosufficienti e titolari di indennità di accompagnamento, in possesso di un Isee inferiore a 6 mila euro. Secondo quando previsto nel decreto Pnrr, chi si trova in queste condizioni potrà non pagare integralmente i contributi pensionistici per l’assunzione di un badante con mansioni di assistenza. La misura, che scade nel dicembre del 2025, permette un risparmio massimo di 3mila euro annui per un totale di 24 mesi.

Le condizioni per poter accedere a questo esonero contributivo sono molto stringenti. Per questo motivo è stato rinominato “mini-bonus badanti“. C’è chi ha calcolato che, alla fine, potranno usufruirne solo 25mila italiani. A fine aprile l’Inps aveva ancora pubblicato sul proprio sito una circolare al riguardo né le modalità di domanda. In ogni caso, il bonus durerà fino al 31 dicembre 2025, o fino a esaurimento fondi. Per il 2024 sono stati stanziati 10 milioni di euro, che diventeranno 39,9 milioni per il 2025.

Chi ne ha diritto

Hanno diritto all’agevolazione coloro che, essendo in possesso di un Isee inferiore a 6mila euro, assumeranno per la prima volta una (o un) badante. L’aiuto è previsto anche per la trasformazione di un contratto già esistente in uno a tempo indeterminato. La misura del bonus badanti prevede per il datore di lavoro che soddisfa i requisiti per poter accedere all’aiuto una decontribuzione al 100% sia dei versamenti contributivi all’Inps e sia di quelli assicurativi Inail.

Badanti, ci sono anche altre misure

L’agevolazione del bonus badanti consiste in una esenzione dal pagamento dei contributi per il lavoro domestico. Normalmente il datore di lavoro li versa ogni 3 mesi tramite bollettini Mav inviati dall’Inps o sul sito dell’Inps stesso. Le scadenze per i pagamenti sono: 10 gennaio, 10 aprile, 10 luglio e 10 ottobre.

Questa misura non è comunque l’unico aiuto previsto per le famiglie in difficoltà: esistono, infatti, diversi bonus per il 2024. Il 25 gennaio 2024 il Cdm ha dato l’ok alla “prestazione universale“, che prevede fino a mille euro in più. Esiste, infatti, il bonus assistenza non autosufficienti, che prevede la possibilità per il datore di lavoro di detrarre il 19% del costo complessivo a carico sostenuto per gli addetti all’assistenza personale dei non autosufficienti. A prescindere dall’età e dall’Isee. In questo caso, la spesa massima detraibile è di 2.100 euro all’anno. Può detrarla, in sede di dichiarazione dei redditi, solo chi ha un reddito personale inferiore a 40 mila euro. Inoltre, si possono dedurre anche i contributi pensionistici versati per colf e badanti regolarmente assunti entro un limite massimo annuo di 1.549,37 euro.

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Eurostat: “In Italia si lavora di più che nel resto d’Europa” (ma la produttività è bassa)

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Produttività lavoro Italia
Foto Ansa/Epa Clemens Bilan

Gli italiani, certifica Eurostat, lavorano tanto in termini di tempo dedicato al mestiere o alla professione; molto di più rispetto ai cittadini di altri Stati dell’Unione Europa. Ma la loro produttività resta bassa. Un’apparente contraddizione, se non fosse che la produttività del lavoro non dipende tanto dal numero di ore lavorate quanto da vari altri fattori. Come ad esempio la sicurezza e la salute del personale in azienda o nell’ente, e la qualità del lavoro più che la quantità.   

Secondo l’Eurostat gli orari di lavoro lunghi (49 ore la settimana) nel nostro Paese nel 2023 hanno riguardato quasi una persona su dieci tra i 20 e i 64 anni, il 10% appunto, contro una media Ue del 7,1%. Ci superano solo Grecia, Francia e Cipro. Si tratta di numeri legati all’alta presenza degli autonomi, un settore in cui tradizionalmente si è impegnati per un numero di ore maggiore rispetto alla media (il 29,3% della categoria lavora almeno 49 ore).

I dati di Eurostat sugli autonomi

Un lavoratore su dieci è impegnato circa un giorno in più a settimana rispetto agli altri, considerando che l’orario standard in molti casi oscilla tra le 36 e le 40 ore. In Italia, sottolineano i ricercatori di Eurostat, l’istituto statistico della Ue, i lavoratori dipendenti impegnati almeno 49 ore la settimana sono in media il 3,8%. La media europea è del 3,6%. Gli autonomi con dipendenti che lavorano con questi orari sono il 46% del totale (41,7% la media Ue).

I lavoratori autonomi senza dipendenti che lavorano 49 ore alla settimana sono il 27,4% (il 23,6% in Ue). Coloro che sono impegnati in un lavoro di aiuto all’attività familiare e che raggiungono le 49 ore sono il 20,1% (il 14% in Ue). La percentuale degli ‘stakanovisti’ sale se si considerano solo gli uomini, con il 12,9% degli occupati che lavorano almeno 49 ore a settimana (il 9,9% in Ue). Tra gli autonomi con dipendenti la percentuale supera il 50% in Italia (50,8%) e si attesta sul 46,3% in Ue.

I lavoratori dipendenti

Anche tra i dipendenti la percentuale di chi lavora almeno 49 ore alla settimana aumenta tra gli uomini, con il 5,1% in Italia a fronte del 5% della media Ue. Tra le donne le autonome con dipendenti lavorano a lungo nel 32,5% dei casi (quasi una su tre) a fronte del 29,6% in Ue. Tra le dipendenti sono invece il 2,3% a fronte del 2,1% in Ue. Nel complesso, le donne che lavorano almeno 49 ore alla settimana sono il 5,1% del totale contro il 3,8% nel resto dell’Unione europea

In Italia, emerge ancora dai numeri di Eurostat, hanno orari lunghi soprattutto i dirigenti (40,5% del totale a fronte del 21,9% in Ue) con una percentuale del 24,4% per i manager dipendenti (il 14,3% in Ue). Il 10,3% dei professionisti in Italia dichiara di lavorare almeno 49 ore e il 10,9% dei lavoratori dei servizi e delle vendite (6,5% in Ue). Tra i lavoratori dell’agricoltura in Italia il 36,3% lavora almeno 49 ore a settimana (siamo al 27,5% in Ue).

I paesi dove si lavora di più al mondo

Oltre all’Eurostat anche l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo in Europa) diffonde periodicamente le cifre sul mondo del lavoro. Secondo dati relativi al 2020, il paese dove si lavora più ore al mondo è il Messico (2.257 ore all’anno), seguito dal Costa Rica (2.179): due Stati in cui, a fronte di ricche risorse naturali, la povertà è molto diffusa.

I paesi dove al contrario si lavora il minor numero di ore annue sono: Germania (1.356), Danimarca (1.408), Norvegia (1.419), Olanda (1.433), Svezia (1.453), Islanda (1.461), Austria (1.487), Francia (1.514) e Regno Unito (1.681). Tutti paesi ricchi. Come detto, non sempre più ore di lavoro implicano maggiore produttività. Malgrado che l’Italia sia nelle prime posizioni per numero di ore lavorate alla settimana, è invece agli ultimi posti per livelli di produttività del lavoro. Per produttività del lavoro s’intende il risultato del rapporto tra valore aggiunto e ore lavorate.

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Camila Giorgi, pignoramento da mezzo milione di euro

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Camila Giorgi fisco ritiro tennis pignoramento
Foto Ansa/Epa Francisco Guasco

“L’Agenzia delle Entrate ha presentato un atto di pignoramento verso terzi alla Federtennis” perché Camila Giorgi deve 464 mila euro al fisco di tasse non pagate. Lo conferma all’Agenzia di stampa Ansa la Federazione tennis e padel.

Questo non esclude che il debito della tennista azzurra – il cui caso sta facendo scalpore sui social media dopo l’inconsueta procedura di ritiro dall’attività agonistica – sia anche maggiore. Il valore economico che l’esattore chiede formalmente a Giorgi è pari a 464mila euro. Ma si tratta semplicemente la cartella esattoriale girata alla Federazione italiana tennis e padel. In realtà, secondo voci non confermate, la campionessa azzurra di tennis avrebbe debiti con l’Erario per milioni di euro.

Giorgi, sparita e poi riapparsa

La Federazione è coinvolta nella questione perché paga premi e gettoni di presenza in Nazionale agli atleti. Dovrà dunque girare all’Agenzia delle Entrate eventuali premi non pagati alla Giorgi dall’atto di pignoramento, vale a dire da luglio 2023. O anche quelli futuri, che però ora non sono ipotizzabili visto che la 32enne maceratese si è ritirata. La Guardia di Finanza aveva convocato la ormai ex tennista il 13 aprile per notificare a lei e alla sua famiglia documenti su accertamenti fiscali. Non avrebbero presentato la dichiarazione dei redditi per anni.

Sabato 11 maggio Camila Giorgi aveva rotto il silenzio dopo giorni di indiscrezioni sul suo conto. La giovane ex tennista era infatti sparita dalla circolazione, risultando irreperibile. Di fatto, ancora adesso, non è chiaro dove si trovi. Forse, secondo alcune ipotesi, all’estero, in America. Tuttavia l’11 maggio ha ufficializzato il ritiro dal tennis e ha invitato i suoi fans a non credere a presunti e non indicati “articoli fake“. “Sono felice di annunciare formalmente il ritiro dalla mia carriera tennistica“.

La storia su Instagram

Come detto, dopo essere sparita da giorni, alimentando voci e supposizioni, Giorgi ha scritto una storia sul suo profilo Instagram. “Per favore seguite la mia pagina perché finora stanno uscendo solo articoli fake” ha scritto la 32enne maceratese. “Sono così grata per il vostro meraviglioso amore e sostegno per così tanti anni. Conservo tutti i bellissimi ricordi. Ci sono state molte voci inesatte sui miei piani futuri, quindi non vedo l’ora di fornire maggiori informazioni sulle entusiasmanti opportunità future. È una gioia condividere la mia vita con voi e continuiamo questo viaggio insieme“. Un messaggio che potrà forse soddisfare i fan ma non il Fisco italiano che ha proceduto a un pignoramento da quasi mezzo milione di euro nei confronti dell’ex campionessa.

Una carriera in chiaroscuro

Il quotidiano la Repubblica ha scritto di aver saputo da alcuni vicini di casa di Giorgi (che ha la residenza a Calenzano, poco fuori Firenze) che lei e la sua famiglia non si vedono da settimane. I vicini hanno raccontato che, alcuni mesi fa, davanti all’abitazione della ex tennista si sarebbe presentato il furgone di una ditta di traslochi.

Giorgi ha 32 anni, e durante la sua carriera è stata una tennista molto promettente. Al tempo stesso, però il suo rendimento in campo è stato non poco altalenante. Fra le altre cose, è stata la seconda tennista italiana della storia (dopo Flavia Pennetta nel 2014) a vincere un torneo WTA 1000. Vale a dire il più importante dopo i 4 tornei del Grande Slam (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open). Prima del ritiro occupava la 116ª posizione nel ranking mondiale femminile della Women’s Tennis Association (WTA), l’associazione che riunisce le tenniste professioniste di tutto il mondo

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Superbonus, scontro fra il ministro dell’Economia Giorgetti e il vicepremier Tajani

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Giorgetti Tajani decreto Superbonus polemica
Giancarlo Giorgetti (a sin.) e Antonio Tajani. Foto Ansa/VelvetMag

Un secco botta e risposta tra i ministri Giorgetti e Tajani con al centro il tema del nuovo decreto sul Superbonus edilizio sta scuotendo il Governo Meloni. Il provvedimento è ora all’esame della Commissione Finanze del Senato. Il vicepremier forzista si è affrettato a stemperare i toni in tarda mattinata, l’11 maggio: “Giancarlo Giorgetti è un caro amico, ottimo ministro. Non è che per un emendamento traballa il Governo”.

Ha poi aggiunto che il confronto “è normale amministrazione“. Ma incombe l’assunto che ha dato adito allo scontro: “Rimane un principio in contrasto con la nostra civiltà giuridica: non si possono imporre norme con effetto retroattivo“. Non rinuncia comunque a una precisazione piccata, Tajani. “Anche il ministro Giorgetti se ne farà una ragione. Perché prima di votare un emendamento che non è del Governo, ma del Ministero, noi in Parlamento vogliamo valutare se è un emendamento che rispetta le regole fondamentali della nostra civiltà giuridica“.

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Superbonus e sismabonus

A innescare la miccia è stato il testo del decreto legge emendato dal Governo. Un testo che contiene la norma che prevede la ripartizione della detrazionein dieci quote annuali di pari importo” per le spese legate al Superbonus sostenute nell’anno 2024. La novità, quindi, sarà retroattiva fino al gennaio 2024 e si applicherà anche al sismabonus. La norma, che vale anche per gli studi finanziari, non tocca invece le persone fisiche.

La retroattività non è piaciuta neppure alla Confindustria, sebbene l’associazione degli industriali ammetta e comprenda le ragioni di sostenibilità dei conti pubblici per le quali il Governo può disporre lo spalma-crediti per decreto legge a vigenza immediata. “Ma allora lo si applichi solo per crediti maturati da spese sostenute successivamente a quella data“, ha detto Maurizio Mareschini, numero due di Confindustria.

Parole ‘incendiarie’

Di prima mattina, l’11 maggio, avevano acceso gli animi sul Superbonus le parole di Giorgetti alla presentazione delle liste della Lega per le elezioni europee. “Tajani quando leggerà l’emendamento capirà il buon senso che l’ha ispirato” aveva asserito il ministro. “Credo che se ne farà una ragione anche lui, perché altrimenti dovremo andare a ridiscutere tante spese che abbiamo“. “Io ad esempio – ha aggiunto il ministro dell’Economia – non è che introduco il tema se è opportuno tenere tutte queste missioni militari che abbiamo nel mondo. Magari potremo ridispiegare nel Mediterraneo“.

Il testo dell’emendamento

La detraibilità in 10 anni delle spese per interventi col Superbonus riguarda un ammontare di detrazioni fruibili pari a quasi 12 miliardi tra il 2024 e il 2025. Emerge dalla relazione tecnica all’emendamento del Governo al decreto. “Ai fini della stima si considerano l’ammontare di detrazioni fruibili per l’anno 2024 pari a circa 6.211 milioni di euro e per l’anno 2025 pari a circa 5.780 milioni di euro. Scontati nelle previsioni di bilancio” si legge.

Le nuove norme non si applicano ai soggetti che abbiano acquistato le rate dei predetti crediti a un corrispettivo pari o superiore al 75% dell’importo delle corrispondenti detrazioni. In pratica, la norma non penalizza gli istituti finanziari che hanno acquistato i crediti senza un eccessivo sconto. Negli altri articoli dell’emendamento al decreto Superbonus si prevede un fondo da 35 milioni per il 2025 per gli interventi di riqualificazione nelle aree interessate da piccoli interventi sismici. E finanziamenti per 100 milioni per il 2025 la riqualificazione energetica e strutturale. Che a farla siano enti del terzo settore, onlus, organizzazioni di volontariato e dalle associazioni di promozione sociale.

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