Riconoscimento qualifica dirigenziale:
Ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale, è necessario e sufficiente che sia dimostrato l’espletamento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate dalla preposizione ad uno o più servizi con ampia autonomia decisionale, e non occorre una formale investitura trasfusa in una procura speciale, perché richiedere anche tale requisito significherebbe subordinare il riconoscimento della qualifica ad un atto discrezionale del datore di lavoro, di per sé insindacabile, con conseguente violazione del principio della corrispondenza della qualifica alle mansioni svolte. È il principio di diritto reso dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nella sentenza n. 18165 del 2015 (Presidente: Macioce; Relatore: Blasutto, depositata il 16.9.2015).
Ed è l’argomento trattato da un articolo pubblicato oggi (30.9.2015) dal Sole 24 Ore (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “Può influenzare la gestione? È un dirigente”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
La Corte di cassazione ha affermato (sentenza 18165/2015) che il riconoscimento della qualifica dirigenziale a un funzionario del settore credito che abbia svolto, in concreto, mansioni di contenuto apicale non può essere condizionato a una formale investitura da parte dei vertici aziendali. Una conclusione differente, infatti, comporterebbe violazione del principio per cui deve esservi corrispondenza tra le mansioni effettivamente svolte dal dipendente e la categoria di inquadramento.
Precisa la Corte che, ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale, deve essere dimostrato, da parte del lavoratore, lo svolgimento di mansioni caratterizzate dalla preposizione, con ampia autonomia decisionale, a uno o più servizi che pongono il dirigente in condizione di influenzare l’attività dell’intera impresa o di una sua area rilevante.
Aggiunge la Cassazione, in termini ancor più analitici, che la qualifica di dirigente compete al lavoratore che, come «alter ego» dell’imprenditore, viene preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale o, quantomeno, a una branca o settore autonomo di essa ed è investito di responsabilità che, in ragione dei poteri di iniziativa e discrezionalità che ne discendono, gli consente di imprimere un orientamento alla gestione complessiva dell’impresa, sia pure nell’ambito delle direttive programmatiche definite dal datore di lavoro.
In questo contesto, aggiunge la Cassazione, la figura del dirigente si differenzia dalla posizione dell’impiegato con funzioni direttive, in quanto quest’ultimo è preposto a un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto, con poteri di iniziativa circoscritti e più limitati, dai quali derivano un corrispondente minor grado di responsabilità e la soggezione al potere di controllo del datore stesso o di un dirigente aziendale.
Il caso esaminato dalla Corte è relativo al ricorso presentato dal funzionario di un istituto di credito che ha rivendicato il diritto a essere inquadrato in categoria dirigenziale e, su tale presupposto, ha sostenuto l’inefficacia del licenziamento per riduzione di personale intimato nei suoi confronti all’esito di una procedura collettiva in base all’articolo 24 della legge 223/1991.
Secondo i giudici è infondata la tesi che condiziona il riconoscimento della qualifica dirigenziale alla sussistenza di una formale attribuzione da parte dei vertici aziendali. Viene ribadito, dunque, il principio espresso in altri precedenti per cui il riconoscimento della qualifica dirigenziale non presuppone una formale investitura mediante conferimento di specifiche procure o mandati, ma si ricollega unicamente all’effettiva attribuzione e al disimpegno di compiti e responsabilità riconducibili nel perimetro della categoria di dirigente.