Mobbing e risarcimento del danno
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la Sentenza n. 16690 del 2015 si è occupata di mobbing e risarcimento del danno affermando il seguente principio di diritto: pur in presenza di mobbing comprovato nel corso del giudizio, viene escluso un risarcimento del danno alla professionalità laddove il reperimento nelle more di una nuova occupazione, adeguata alla professionalità della lavoratrice, comporti anche un trattamento economico e livello di inquadramento definitivo non deteriore rispetto a quello in precedenza goduto.
È questo il tema trattato da un articolo pubblicato oggi (13.8.2015) sul Sole 24 Ore (firma: Angelo Zambelli; Titolo: “Il nuovo posto “limita” il mobbing”).
Ecco l’articolo.
La sentenza della Corte di cassazione 16690, depositata l’11 agosto 2015, non si segnala tanto per la conferma dell’ormai costante orientamento giurisprudenziale in tema di onere della prova gravante sul lavoratore che chieda in giudizio il riconoscimento di un danno conseguente ad un inadempimento datoriale, quanto piuttosto per la particolarità della vicenda sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità.
Una lavoratrice ha rassegnato le dimissioni per giusta causa per i comportamenti mobbizzanti posti in essere nei suoi confronti dal datore di lavoro.
Nei giudizi di merito, dichiarata la sussistenza del mobbing lamentato dalla lavoratrice – per la cui configurabilità, secondo la Cassazione 4 giugno 2015, n. 11547, «è necessario che ricorrano: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere in maniera sistematica contro il dipendente; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, vale a dire dell’intento persecutorio» – la società è stata condannata alla restituzione dell’importo trattenuto a titolo di mancato preavviso nonché al pagamento dell’indennità di preavviso e al risarcimento del danno biologico accertato all’esito dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio, mentre veniva rigettata la domanda di risarcimento del danno alla professionalità.
La lavoratrice ha fatto ricorso in Cassazione censurando la pronuncia della Corte d’appello nella parte in cui, pur avendo riconosciuto il mobbing di cui era stata vittima, non ne aveva tuttavia fatto conseguire l’accoglimento della domanda risarcitoria.
La Cassazione, sul punto, ha ritenuto che «non sussiste alcuna contraddittorietà della decisione della Corte che, pur avendo riconosciuto il “mobbing”, ha negato la sussistenza della lesione ai diritti della personalità» in difetto della relativa prova da parte della lavoratrice, aderendo correttamente al principio giurisprudenziale secondo cui, esclusa la configurabilità del danno in re ipsa, il riconoscimento del risarcimento del danno conseguente a qualsivoglia asserito illecito datoriale non può prescindere dalla specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, della natura e delle caratteristiche del pregiudizio di cui si chiede il ristoro.
Ancora recentemente la giurisprudenza di legittimità – richiamando le pronunce a Sezioni Unite 6572/2006 e 26972/2008 – ha ribadito che «il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione … dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno» (Cassazione 5 giugno 2013, n. 14214).
Piuttosto, la sentenza in commento è degna di nota e condivisibile laddove, argomentando a contrariis, ha escluso «un danno alla professionalità apprezzabile stante il nuovo lavoro del tutto adeguato alla professionalità della lavoratrice» reperito poco dopo le dimissioni, «con trattamento economico e livello di inquadramento definitivo non deteriore rispetto a quelli goduti» in precedenza.
L’auspicio è che il dictum sopra riportato della Cassazione possa rappresentare un “freno” alla proposizione in giudizio di domande di risarcimento del danno che, troppo spesso, risultano infondate se non addirittura temerarie.