La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza 21540 del 2019, ha chiarito quale sia la base imponibile da tenere in considerazione per la gestione artigiani e commercianti INPS.
Estratto dell’articolo di Antonello Orlando per il Sole 24 Ore (per il testo integrale clicca qui).
La recente sentenza 21540 del 2019, depositata lo scorso 20 agosto, sembra porre fine a una lunga querelle a proposito della base imponibile dei lavoratori iscritti alla gestione Inps degli artigiani e dei commercianti.
Il caso
In particolare, la sentenza affronta la controversia avviata da un artigiano, regolarmente iscritto alla gestione dei lavoratori autonomi, che si era visto recapitare un avviso di addebito da parte di Inps per oltre 20mila euro di contributi calcolati sui redditi di capitale maturati dallo stesso soggetto per effetto della sua condizione di socio di capitale di una srl operante nell’ambito dei servizi idraulici. Le pretese dell’istituto di previdenza sono fondate su una interpretazione molto estensiva della norma di riferimento, che definisce su quale base imponibile si calcoli la contribuzione alle gestioni di artigiani e commercianti che, in questi anni, ha portato a numerose pronunce sfavorevoli a Inps nei primi due gradi di giudizio (si pensi alla sentenza del Tribunale di Pescara 639/2014 e a quella della Corte d’appello dell’Aquila 752/2015).
La legge 233/1990
Se la legge 233/1990, all’articolo 1, comma 1, prevedeva che i contributi di artigiani e commercianti si calcolassero quale percentuale del reddito annuo «derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione», una successiva norma operativa dal 1993 aveva allargato il perimetro di applicazione dell’obbligo contributivo. L’articolo 3bis del Dl 384/1992 aveva stabilito, infatti, che il contributo a percentuale alla gestione venisse rapportato alla «totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef».
L’interpretazione INPS della legge 233
Tale dettato era stato, tuttavia, interpretato da Inps non in funzione di un rimando letterale a una delle sei categorie reddituali del Tuir (quella appunto dei redditi di impresa), ma in modo più ampio anche in relazione ad altre categorie reddituali. Con la Circolare 102/2003, ripresa anche dalla 84/2011, l’Istituto ha ritenuto includibile nella base imponibile anche gli eventuali redditi di capitale percepiti dall’iscritto alla gestione dei lavoratori autonomi per effetto di una partecipazione azionaria senza alcun apporto di lavoro; tale interpretazione viene dall’Inps legata agli intenti espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza 354/2001, la quale aveva fornito indicazioni sugli obblighi contributivi dei soci di società di capitale e di persone, con o senza apporto di lavoro nelle stesse società .
La decisione della Cassazione
Secondo la Cassazione tali motivazioni dell’Istituto, pur se improntate a un fine di maggior solidarismo nel sistema contributivo, non possono essere ritenute accettabili in quanto ampliano la base contributiva senza osservare le dovute differenze non solo sul piano oggettivo dell’attività d’impresa (ben diversa dal mero apporto di capitale), ma anche dal punto fiscale, con il risultato di un appiattimento di due diverse categorie reddituali che aumenta in modo automatico (e anche retroattivamente) l’obbligo contributivo sulla base delle informazioni disponibili in dichiarazione reddituale.
La sentenza argina, dunque, l’interpretazione estensiva difesa dall’Istituto, respingendo il ricorso di Inps rispetto alla sentenza della corte d’Appello di Trieste che aveva già dato ragione al contribuente.
Va in ultimo osservato come l’interpretazione dell’ente di previdenza, bocciata dalla sentenza della Cassazione, ha nel passato anche comportato gravi problemi a livello pensionistico agli assicurati, i quali, in seguito all’emersione di debiti contributivi originati da redditi di partecipazione societaria, si sono visti contrarre i propri accrediti contributivi, perdendo così il diritto a pensione.