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La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza 8911 del 2019, ha stabilito che il dipendente può rifiutarsi di svolgere la prestazione se il datore di lavoro omette l’applicazione delle misure di sicurezza, ma è tenuto a provare “la gravità e la rilevanza di questo inadempimento, qualora la violazione non riguardi precauzioni espressamente previste dalla legge e attenga agli obblighi generali fissati dall’articolo 2087 del codice civile” (dal Quotidiano del lavoro del Sole 24 Ore del 5.4.2019).

Vediamo insieme i fatti di causa.

Con ricorso al Tribunale di Genova …. dipendente di … dal 1° aprile 1981 con mansioni di macchinista, impugnava i licenziamenti disciplinari – il primo, con preavviso, del 1° agosto 2014 e il secondo, senza preavviso, dal 5 settembre 2014 – intimatigli dalla società a fronte del suo rifiuto di condurre il treno senza la presenza in cabina di un secondo agente abilitato alla condotta.

Il Tribunale annullava i licenziamenti ritenendo che il rifiuto della prestazione fosse giustificato dal dedotto inadempimento da parte di … rispetto alle obbligazioni di sicurezza (art. 2087 c.c.) e riteneva fondata la prospettazione del ricorrente secondo cui il suddetto rifiuto di rendere la prestazione configurasse una legittima eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.).

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La decisione era confermata in sede di opposizione.

Il reclamo proposto dalla società era respinto dalla Corte d’Appello di Genova.

Escludeva la Corte territoriale che il giudice dell’opposizione, esorbitando dalle prerogative della funzione giurisdizionale, avesse imposto alla società l’adozione di una determinata posizione di lavoro.

Condivideva l’assunto circa la configurabilità del rifiuto alla stregua di un’eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c. e richiamava la sentenza di questa Corte n. 11427/2000 sulla “peculiare funzione dinamica” dell’art. 2087 c.c.

Richiamava, inoltre, quanto alla possibilità per il lavoratore di avvalersi dell’eccezione d’inadempimento nei confronti del datore di lavoro che non rispetti le prescrizioni di cui all’art. 2087 c.c., Cass. n. 11664/2006 e Cass. n. 14375/2012 rilevando che il giudice del lavoro, ai fii della decisione sulla legittimità di un licenziamento, ben può valutare la salubrità dell’ambiente lavorativo e l’idoneità delle misure antinfortunistiche apprestate dal lavoratore senza che ciò configuri una illecita intromissione nei poteri organizzativi spettanti al medesimo.

Condivideva la valutazione del Tribunale circa la violazione, nello specifico, dell’art. 2087 c.c. rilevando un deficit di sicurezza ed un arretramento della tutela antinfortunistica per il macchinista che, colto da malore, in assenza di altro macchinista a seguito dell’adozione del modulo ad equipaggio “misto” (macchinista e tecnico polifunzionale treno), fosse impossibilitato a proseguire nella conduzione del treno laddove anche il decreto del Ministero delle Infrastrutture e trasporti n. 19/2011 all’art. 4 prevedeva a carico delle imprese ferroviarie la predisposizione di procedure operative a di piani di intervento al fine di garantire un soccorso qualificato nei tempi più rapidi possibili anche per il trasporto degli infortunati.

Riteneva, quanto alla dedotta scarsa probabilità statistica di verificazione degli eventi paventati dal … che il Tribunale avesse puntualmente dato atto sia della analitica casistica riferita dal ricorrente (non contestata da controparte) sia del fatto che la figura del macchinista è esposta più di altre alle patologie causate dallo stress.

Rilevava che il dipendente avesse correttamente formulato nei confronti della società le ragioni del proprio rifiuto ed escludeva che l’art. 56 lett. h) del CCNL, che consente al lavoratore di non ottemperare all’ordine rinnovato per iscritto solo nell’ipotesi che la sua esecuzione importi violazione di norme penalmente rilevanti, potesse derogare a norme imperative quale l’art. 2087 c.c. pregiudicando il diritto dei lavoratori di far valere l’eccezione d’inadempimento nel caso di violazione di tale norma.

Quanto alle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, riteneva che la sussistenza di una esimente, neutralizzando l’illiceità dell’addebito disciplinare, integrasse l’insussistenza del fatto e quindi comportasse la reintegra nel posto di lavoro.

Avverso la sentenza d’appello proponeva ricorso per cassazione la società datrice di lavoro, cui resisteva con controricorso il lavoratore.

La Corte Suprema accoglieva il ricorso con il principio di diritto in epigrafe riportato.

Ed infatti la Cassazione nel ribadire la natura contrattuale della responsabilità che grava sul datore di lavoro in tema di sicurezza sul lavoro, ha precisato che viene imposto al datore di lavoro di attivarsi per “predisporre un ambiente idoneo a tutelare la salute, con la conseguenza che è possibile per il dipendente rifiutare di svolgere l’attività quando non viene adempiuta l’obbligazione di sicurezza”. Tuttavia – ha precisato la Corte Suprema – la responsabilità del datore di lavoro  “non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da configurarsi in senso oggettivo, essendo sempre necessario accertare un difetto di diligenza del datore stesso”. “Il lavoratore, infatti, può invocare l’inadempimento dell’obbligazione di sicurezza, ma ha l’onere di provare la responsabilità datoriale; tale onere si atteggia diversamente in relazione a misure previste espressamente dalla legge (“nominate”) oppure ricavabili in via interpretativa dal generale obbligo di sicurezza (“innominate”)”.

Per le prime (misure nominate), il lavoratore ha esclusivamente l’onere di provare “l’esistenza della violazione e il nesso di causalità con il danno alla salute”. Per le seconde (misure innominate), invece, il datore di lavoro deve dimostrare “di aver adottato misure di prevenzione coerenti con gli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze tecniche e sperimentali esistenti. Per queste misure, prosegue la sentenza, non è possibile pretendere che il datore di lavoro rispetti ogni cautela possibile diretta a evitare qualsiasi danno: egli deve avere cura, invece, di adottare le misure che in concreto, rispetto alle mansioni svolte, appaiono idonee a evitare eventi prevedibili. Inoltre, non basta l’accertamento di un inadempimento datoriale, essendo necessario – per giustificare il rifiuto di svolgere la prestazione – la proporzionalità della violazione”. Nel caso in esame, il datore di lavoro ha dimostrato di aver applicato tutte le misure di sicurezza “nominate”; la Corte d’appello, al contrario, non ha effettuato una corretta valutazione circa la gravità e la rilevanza dell’inadempimento delle misure innominate, con la conseguenza che la sentenza d’appello è stata annullata con rinvio anche per le spese alla Corte d’appello di Genova.

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