Licenziamento nullo se intimato prima della fine del periodo di comporto, questo quanto deciso con la sentenza n. 12568 del 2018 dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto su tale argomento.
Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta con l’articolo pubblicato oggi (23.5.2018) dal Sole 24 Ore (Firma: A. Zambelli; Titolo: “Licenziamento nullo se anticipato”) che di seguito riportiamo.
È nullo il licenziamento del dipendente intimato in costanza di malattia prima della fine del periodo di comporto.
Nel caso portato all’attenzione della Cassazione a sezioni unite (sentenza 12568/2018), il datore di lavoro era receduto dal rapporto di lavoro non appena ricevuto un certificato di malattia recante una prognosi tale da determinare il superamento del periodo massimo di conservazione del posto, senza quindi attendere il suo compiuto esaurimento.
Per la Suprema corte, il licenziamento intimato per superamento del comporto prima della scadenza dello stesso deve considerarsi «nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, cod. civ.», atteso che all’atto della comunicazione di recesso il presupposto legittimante il licenziamento non si è ancora realizzato.
Il tribunale prima, e la Corte d’appello di Cagliari poi, chiamati a giudicare la legittimità della decisione, hanno rigettato l’impugnazione del dipendente, sull’assunto che il recesso non dovesse considerarsi invalido, bensì meramente inefficace sino all’ultimo giorno di malattia.
La Cassazione ha ribaltato le decisioni dei giudici territoriali. Poco conta che tale presupposto – come nel caso in esame – si sarebbe potuto realizzare successivamente. I requisiti di validità del recesso, infatti, devono sussistere al momento in cui lo stesso viene intimato.
Le sezioni unite danno altresì atto di come il contrasto tra il principio di diritto espresso nella sentenza e l’orientamento giurisprudenziale che sanziona con l’inefficacia il licenziamento intimato in costanza di malattia del lavoratore, al quale i giudici territoriali sembrerebbero aver aderito, sia solo apparente: nel caso portato da ultimo all’attenzione della Suprema corte, infatti, il perdurare dello stato di malattia integrava «di per sé l’unica ragione del licenziamento» e, pertanto, l’unico presupposto di legittimità del recesso. Diversamente, nei precedenti giurisprudenziali che hanno aderito alla tesi dell’inefficacia, il recesso datoriale era fondato su di «un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia» (segnatamente, giustificato motivo oggettivo, sopravvenuta inidoneità del prestatore ovvero riduzione del personale) e, conseguentemente, il perdurare dello stato di malattia rappresentava un mero «elemento… estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento».
La sentenza 12568 risolve una questione pratica che spesso è dato incontrare: se, infatti, l’articolo 2110 del codice civile dispone che in caso di malattia del lavoratore l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto solamente una volta «decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità», la legge tace in ordine alla sorte del licenziamento intimato prima che tale periodo sia effettivamente trascorso.
Le sezioni unite rendono giustizia di un contrasto giurisprudenziale che in realtà non sussisteva agli occhi del lettore più attento: il licenziamento è inevitabilmente nullo ogniqualvolta trovi la sua causa nel superamento di un periodo di comporto non verificatosi, mentre – qualora intimato per altra ragione in presenza della quale l’ordinamento consente il recesso datoriale – dovrà essere considerato meramente inefficace sino all’esaurimento del comporto, ovvero fino a quando perduri la malattia del lavoratore.