La III Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 4560 del 2018 di ieri 31 gennaio, ha confermato le condanne dei dirigenti della Centrale Enel Chivasso per i decessi di vari lavoratori, avvenuti tra il 2003 e il 2004, per mesotelioma pleurico dovuto alla inalazione di amianto largamente presente nello stabilimento.
Per saperne di più sulla vicenda riportiamo l’articolo pubblicato oggi (1.2.2018) dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 (firma: F. Machina Grifeo; Titolo: “Amianto, confermate condanne per dirigenti centrale Enel Chivasso”).
Confermate le condanne dei manager della centrale Enel di Chivasso per la morte (tra il 2003 ed il 2004) per mesotelioma pleurico di alcuni operai esposti per decenni all’amianto, largamente presente nello stabilimento. La Corte di cassazione, sentenza 4560 del 31 gennaio, ha così messo la parola fine ad una vicenda giudiziaria che si trascina da oltre un decennio. Dopo la condanna per omicidio colposo plurimo, aggravato dalla violazione delle norme di sicurezza, comminata dal Tribunale di Torino nel 2008, la Corte di appello, nel 2012, con una sentenza definita “choc” dai media, aveva assolto i dirigenti perché «il fatto non sussiste».
La decisione era motivata sulla base di una perizia che aveva abbracciato la tesi della “fibra killer”, secondo la quale era sufficiente una sola inalazione per scatenare la malattia. Ne derivava che la durata dell’esposizione non era più rilevante. Non era dunque più possibile neppure valutare l’«effetto acceleratore» della esposizione prolungata e stabilire «se la polarizzazione della catena causale verso l’evento lesivo fosse avvenuta prima del momento in cui ciascuno degli imputati aveva assunto la posizione di garanzia». Proposto ricorso dalla Procura, la Cassazione, nel 2014, ha cassato la decisione rinviando alla Corte di appello che nel 2015 ha riaffermato l’esistenza del nesso causale tra la prolungata esposizione all’amianto e la morte dei dipendenti, deducendone che se i dirigenti avessero adottato delle misure di protezione adeguate si sarebbe «quanto meno ridotto il rischio e accresciuto il periodo di latenza». Contro questa decisione gli imputati hanno nuovamente fatto ricorso in Cassazione.
Per la Suprema corte la decisione ha correttamente preso atto del superamento da parte della «letteratura scientifica ormai consolidata», della teoria della «cd. dose killer». E ciò, prosegue, «non può che comportare, sul piano logico, l’adesione all’ipotesi scientifica, avente fondamento epidemiologico, secondo cui l’aumento della esposizione produce effetti nel periodo di induzione e di latenza». Per cui, argomenta la Corte, «deve ritenersi la rilevanza eziologica delle esposizioni alla sostanza verificatesi nel periodo in cui i tre imputati rivestivano i cennati ruoli direttivi nella centrale Enel, in quanto “concause” che, al di là del significativo valore epidemiologico assunto, avevano certamente concorso a determinare la grave neoplasia dell’apparato respiratorio e, conseguentemente, l’evento morte dei tre lavoratori, soprattutto in quanto si consideri la natura, da nessuno qui contestata, del mesotelioma quale patologia dose-dipendente».
Riguardo poi l’ulteriore contestazione per cui l’uso dell’amianto è stato normato soltanto nel 1992, per i giudici è prevalente il fatto che gli effetti nocivi erano già ampiamente conosciuti per cui il datore di lavoro era nelle condizioni di predisporre adeguate misure di prevenzione.