Patto di stabilità durata minima rapporto di lavoro e compenso:
La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 14457 del 2017, ha stabilito che il patto di stabilità, cioè la somma prevista per vincolare il lavoratore ad una durata minima del rapporto di lavoro deve essere sicuramente essere remunerata, ma non è necessario un compenso ad hoc.
E di patto di stabilità di cui alla sentenza 14457/2017 ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (27.6.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: Massimiliano Biolchini e Serena Fantinelli; Titolo: “Patto di stabilità anche senza compensi ad hoc”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Con la sentenza 14457/2017 la Corte di cassazione, ribaltando la decisione “doppia conforme” dei precedenti gradi di giudizio, ha chiarito che il patto di stabilità debba certamente essere remunerato, ma non necessariamente con un compenso “ad hoc”.
Nel caso specifico il datore di lavoro, in un periodo di espansione e avendo in programma la costituzione di una nuova società, ha assunto il dirigente con un contratto che prevedeva anche un patto di stabilità della durata di dodici mesi, assistito da clausola penale. Il dirigente, tuttavia, si è dimesso prima del periodo pattuito, e la società ha chiesto l’ingiunzione del pagamento della penale, pattuita nella misura di 100.000 euro.
Il tribunale di primo grado ha revocato l’ingiunzione di pagamento, e anche la Corte di appello, estendendo al patto di stabilità le previsioni sulla necessità di un compenso specifico relative alla diversa fattispecie del patto di non concorrenza post-contrattuale, ha confermato l’illegittimità della pattuizione, perché non ha previsto alcun corrispettivo specifico della compressione della facoltà di recesso del dirigente.
Secondo i giudici di legittimità, invece, nel momento in cui conclude il contratto, il lavoratore «resta arbitro della convenienza o meno della assunzione della posizione contrattuale», ma con il limite della inderogabilità del diritto, attribuitogli dall’articolo 36 della Costituzione, a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto.
Pertanto, continua la Corte, deve certamente affermarsi dovuto al lavoratore un corrispettivo della limitazione delle sue facoltà, affinché non venga inciso il minimo costituzionale dovutogli quale corrispettivo della prestazione fondamentale di lavoro, ma la corrispettività «deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale di ciascuna parte».
Ciò significa che il corrispettivo della clausola di durata minima garantita nell’interesse del datore di lavoro può essere liberamente stabilito dalle parti, e può consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità, o in una obbligazione non monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore; oppure «in una maggiorazione della retribuzione», che sia tale da ricompensare sia la prestazione fondamentale lavorativa, che la limitazione contrattuale assunta.
Peraltro, secondo la Corte, al patto di stabilità non può neppure applicarsi in via analogica la disciplina prevista per il patto di non concorrenza post-contrattuale, perché l’obbligo di uno specifico corrispettivo della limitazione delle facoltà di uno dei contraenti non deriva da un principio generale di ordine pubblico, limitativo dell’autonomia negoziale, ma viene espressamente prevista a pena di nullità ove ritenuta necessaria.
Spetterà ai giudici del rinvio, quindi, stabilire se il trattamento retributivo che era stato concordato fosse superiore al “minimo costituzionale”, proporzionato alla limitazione assunta e quindi tale da giustificare “anche” il patto di stabilità e la clausola penale.