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Criticare il datore è legittimo se i fatti narrati rispondono a verità:

La Corte Suprema, con la sentenza n. 996 del 2017, ha stabilito che il lavoratore può legittimamente criticare il datore di lavoro, purché i fatti narrati siano veri e le espressioni utilizzate rispettino i canoni di continenza formale (cioè l’esposizione dei fatti narrati deve avvenire misuratamente).

E del diritto di criticare il datore di lavoro di cui alla sentenza 996/2017 ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (19.1.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: Angelo Zambelli; Titolo: “Critiche dell’azienda legittime se corrette e per fatti veri”) che vi proponiamo.

Ecco l’articolo.

È legittimo criticare aspramente il datore di lavoro, purché i fatti narrati corrispondano a verità e le espressioni utilizzate rimangano nell’ambito della correttezza e della civiltà.

Così ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 996 depositata il 17 gennaio 2017, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a una lavoratrice accusata di aver posto in essere un comportamento diffamatorio nei confronti del proprio datore di lavoro, avendo la stessa indirizzato alla Procura della Repubblica e al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali un esposto con cui aveva duramente criticato l’impresa datrice di lavoro perché, malgrado fosse in continua crescita economica, aveva fatto «impropriamente» ricorso a procedure di Cassa integrazione straordinaria e mobilità, così realizzando – a suo dire – una «truffa» ai danni dello Stato.

Nel decidere la controversia la Corte di legittimità ricorda che il diritto di critica concesso al dipendente richiede, per il suo legittimo esercizio, che siano rispettati «il principio della continenza sostanziale (secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità) e quello della continenza formale (secondo cui l’esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente), precisandosi al riguardo che, nella valutazione del legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della continenza formale, comportante anche l’osservanza della correttezza e civiltà nelle espressioni utilizzate, è attenuato dalla necessità, ad esso connaturata, di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpretazione dei fatti, anche con espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite» (cfr. Cassazione n. 465/96 e n. 5947/97).

Nel caso in cui tali principi non siano osservati, la condotta del dipendente diviene contraria all’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 del codice civile, a mente del quale il prestatore di lavoro deve astenersi da tutti quei comportamenti che, «per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa oppure creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso» (ex plurimis, Cassazione n. 16000/09, n. 29008/08 e n. 11437/95).

Nel caso in esame, tuttavia, secondo la Cassazione le critiche mosse dalla dipendente non hanno travalicato i limiti del corretto esercizio del diritto, e il licenziamento è quindi illegittimo.

Dal punto di vista sostanziale, infatti, le circostanze segnalate dalla lavoratrice all’autorità giudiziaria «riecheggiavano il contenuto» di quelle già divulgate alla stampa e discusse in sedi istituzionali, e l’esposto, «pur nell’asprezza di taluni passaggi», era stato stilato nel rispetto dei canoni di continenza formale, «giacché l’uso di termini quali illecito o truffa era da ritenersi strettamente correlato a quei dati dei quali l’opinione pubblica era a conoscenza da tempo e compatibile con il contesto in cui era inserito», ovvero quello di una richiesta di intervento di tipo tecnico alle autorità competenti.

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