Licenziamento orale, risarcimento e vizio di ultrapetizione:
La Cassazione, con la Sentenza n. 13876 del 2016 sul risarcimento per licenziamento orale, ha stabilito che il giudice, per non incorrere nel vizio di ultrapetizione, deve osservare il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. In particolare la questione all’esame della Suprema Corte riguardava un dipendente licenziato oralmente il quale chiedeva al giudice, tra le altre cose, la condanna del datore di lavoro ad un risarcimento del danno compreso tra 2,5 e 6 mensilità. Il giudice, invece, aveva stabilito un risarcimento in favore del lavoratore pari a tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegra nel posto di lavoro, incorrendo in tal modo – ad avviso della Cassazione – nel vizio di ultrapetizione.
E a parlarci di licenziamento orale, risarcimento danno e corrispondenza tra chiesto e pronunciato è anche l’articolo pubblicato oggi (8.7.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “L’indennizzo resta nei limiti di quanto richiesto”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che ordina il versamento di tutte le retribuzioni maturate dal giorno della estromissione alla effettiva ricostituzione del rapporto di lavoro, a fronte di una domanda del dipendente di condannare il datore di lavoro al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 6 mensilità quale conseguenza del licenziamento privo di forma scritta.
Sono queste le conclusioni a cui è pervenuta la Cassazione con sentenza 13876/2016, nella quale è stato censurato il giudizio reso dalla Corte d’appello territoriale. Quest’ultima ha ritenuto che, in presenza di un licenziamento intimato verbalmente, poiché l’effetto che ne deriva è l’inidoneità del provvedimento espulsivo ad estinguere il rapporto di lavoro, è giocoforza disporre la ricostituzione del vincolo contrattuale e il versamento di tutte le mensilità non lavorate fino al ripristino del rapporto.
La Corte di cassazione non condivide questa impostazione e osserva che la Corte d’appello, essendosi pronunciata su una domanda che non era stata proposta dal lavoratore, è incorsa nel vizio di ultrapetizione per aver violato il principio, fissato nell’articolo 112 del codice di procedura civile, di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Il limite entro il quale il lavoratore ha circoscritto la propria domanda, ad avviso della Cassazione, doveva impedire di accedere al più ampio regime risarcitorio di diritto comune applicabile al licenziamento privo di forma scritta dei lavoratori delle imprese minori. Poiché si verte in tema di risarcimento del danno, aggiunge la Suprema corte, deve necessariamente operare il principio per il quale, se la parte ricorrente ha quantificato la propria pretesa indennitaria in un importo di misura inferiore, non può il giudice disporre la condanna dell’impresa resistente al pagamento di una somma maggiore.
Non contrasta con questa conclusione, ad avviso della Cassazione, l’ipotesi inversa nella quale, benché il lavoratore abbia richiesto l’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori senza formulare una domanda subordinata, il giudice abbia verificato l’insussistenza dei requisiti dimensionali per l’applicazione della tutela reale e, quindi, condannato il datore di lavoro soccombente alla riammissione in servizio del dipendente ovvero, in alternativa, a un risarcimento contenuto in una misura tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Allo stesso modo, prosegue la Corte, non si ha violazione del principio di ultrapetizione se il lavoratore ha fatto domanda di applicare il regime sanzionatorio dell’articolo 18 (ante legge Fornero) in mancanza dei relativi presupposti numerici e il giudice, sussistendone i presupposti, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento e disposto, unitamente alla ricostituzione del rapporto di lavoro, il risarcimento pieno di diritto comune.
La Cassazione rimarca che, in questo caso, le domande sono in rapporto di continenza, in quanto una pretesa più ampia ricomprende e quindi contiene in sé una pretesa minore.