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L’Agenzia delle Entrate, con Risposta all’interpello n. 458 del 7 luglio 2021, ha risposto ad un quesito sul trattamento fiscale delle retribuzioni per lavoro dipendente erogate a soggetti residenti e non residenti che a causa dell’emergenza epidemiologica svolgono attività lavorativa in Italia, in smart working, invece che nel Paese estero dove erano stati distaccati (artt. 2, 23,51 del TUIR).

Di seguito il testo integrale della Risposta all’interpello n. 458/2021.

Con l’istanza di interpello specificata in oggetto, è stato esposto il seguente

QUESITO

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La Società istante in considerazione della dimensione internazionale del Gruppo cui appartiene ha da sempre investito in programmi di sviluppo promuovendo la mobilità internazionale del proprio personale. L’organico della società è parzialmente composto da dipendenti che svolgono la propria attività lavorativa all’estero presso le sedi del Gruppo (cd. personale outbound) e parimenti da dipendenti, di cittadinanza italiana e non, proveniente dall’estero che svolgono la propria attività lavorativa in Italia (cd. personale inbound).

In particolare, è frequente che il personale dipendente della società istante svolga la propria attività lavorativa all’estero attraverso l’istituto giuridico del distacco o attraverso contratti di lavoro di diritto estero, con le altre consociate estere del Gruppo.

L’improvvisa crisi sanitaria internazionale determinata dal diffondersi del Covid – 19 ha stravolto le modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa per molti lavoratori expatriates. La chiusura della maggior parte delle attività produttive nei primi mesi del 2020 e le misure restrittive alla circolazione delle persone imposte dagli Stati per contenere la diffusione del virus hanno ridotto la possibilità di spostamento e indotto le aziende ad adottare modalità di svolgimento dell’attività lavorativa flessibili (cd. smartworking o lavoro da remoto).

L’eccezionalità di tali misure emergenziali e l’interruzione della mobilità fisica ha fatto sì che i lavoratori svolgessero per periodi più o meno lunghi la propria attività in un luogo diverso, sotto il profilo meramente fisico, da quello previsto dal contratto di lavoro o di distacco.

In particolare, l’implementazione di tali rigorose restrizioni ha determinato alcuni casi di “immobilismo forzato” o, al contrario, la necessità di rientri improvvisi nei Paesi di origine, impedendo poi ai dipendenti il ritorno nel luogo in cui normalmente l’attività veniva prestata.

Nell’istanza di interpello in esame, la Società rappresenta il caso di propri dipendenti, assunti con contratto locale in Italia e distaccati presso le consociate cinesi.

Al riguardo, l’Istante segnala che alcuni dei suddetti dipendenti non sono coniugati e non hanno figli, altri invece si sono trasferiti nello Stato estero con la famiglia; in entrambi i casi i dipendenti risultano iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE).

Sulla base della qualificazione come soggetti non fiscalmente residenti in Italia ai sensi dell’articolo 2 del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), la società istante, in qualità di sostituto d’imposta, per l’anno in corso ha sospeso le ritenute sui redditi di lavoro dipendente nei confronti dei suddetti soggetti, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 3 e dell’articolo 23 del Tuir, secondo cui sono imponibili in Italia solo i redditi derivanti da attività lavorativa prestata nel territorio dello Stato.

A causa della straordinarietà della situazione legata all’emergenza sanitaria esplosa in Cina, un gruppo di circa 12 lavoratori oggetto del presente interpello sono rientrati in Italia a fine gennaio 2020, continuando a svolgere la propria prestazione lavorativa in remote working, sempre a beneficio della società distaccataria cinese, fino al loro rientro in Cina avvenuto nel corso del mese di luglio 2020.

Conseguentemente, per effetto dei provvedimenti adottati dalle autorità dei due Paesi e anche delle policy aziendali adottate in risposta all’emergenza sanitaria da parte della Società, il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa dei dipendenti in oggetto è quindi eccezionalmente e temporaneamente diventato l’abitazione dei lavoratori in Italia.

La Società istante fa presente che l’attività svolta in Italia dai dipendenti in modalità di remote working è rimasta sostanzialmente la medesima durante il periodo di effettiva presenza all’estero.

Pertanto, non vi sono state, tra la Società istante e i dipendenti rientrati in Italia, interruzioni o variazioni contrattuali relativamente alla tipologia di mansioni, alla legal entity (cinese) beneficiaria delle prestazioni di lavoro, alle linee di riporto del lavoratore stesso e alla stessa struttura remunerativa dei dipendenti.

In altre parole, il distacco dei lavoratori in Cina da un punto di vista contrattuale e di fatto non ha subito modifiche, né sotto il profilo individuale, né sotto il profilo dell’accordo intercompany, rimanendo il costo addebitato alla società distaccataria cinese.

Inoltre è precisato che un primo gruppo di dipendenti è riuscito a ritornare in Cina in data 2 luglio 2020, altri sono partiti dall’Italia il 29 luglio 2020, i restanti sono riusciti a far rientro in Cina nei mesi successivi di agosto e settembre.

Pertanto, della popolazione di dipendenti espatriati in Cina, alcuni hanno soggiornato di fatto forzatamente in Italia meno di 184 giorni (principalmente coloro i quali sono rientrati in Cina il 2 luglio e il 29 luglio 2020), altri, invece, rimpatriati in Cina nei mesi successivi, hanno trascorso per le stesse cause di forza maggiore più di 184 giorni in Italia.

Con l’istanza di interpello in esame, la Società istante rappresenta dubbi interpretativi in merito agli obblighi di sostituzione di imposta che è tenuta ad assolvere relativamente alla tassazione del reddito da lavoro dipendente prodotto in costanza di distacco dal lavoratore.

Nello specifico, visto il combinato disposto dell’articolo 2, comma 2, del Tuir e dell’articolo 23 del medesimo testo unico, si chiede di chiarire quali siano gli obblighi del sostituto d’imposta nei confronti di quei dipendenti che, trovandosi per via delle restrizioni dovute al Covid fisicamente in Italia, hanno continuato la loro attività a esclusivo beneficio della distaccataria cinese tramite smart working.

In particolare, l’Istante chiede:

  • se per i dipendenti che abbiano trascorso in Italia, durante l’anno bisestile 2020, meno di 184 giorni, il compenso relativo ai giorni di lavoro svolti in Italia sia da considerare come reddito prodotto nel territorio dello Stato da soggetti non residenti e, in quanto tale, sia da assoggettare ad imposizione in Italia;
  • se la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020, dei dipendenti della Società istante abbia comportato, in linea di principio, una modifica nel loro status di residenza fiscale;
  • qualora questi ultimi dipendenti fossero da considerare residenti in Italia, se la base imponibile di lavoro dipendente possa essere determinata ai sensi dell’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, considerando fittiziamente di fonte estera il reddito derivante da attività svolta in Italia, per cause imputabili all’emergenza sanitaria e definibili di forza maggiore, con relativa spettanza del credito per le imposte assolte all’estero;
  • il metodo di conteggio dei giorni, al fine di soddisfare il requisito dei “183 giorni nell’arco di 12 mesi” previsto dall’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir.

SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE

L’Istante evidenzia che l’OCSE ha emanato, in data 3 aprile 2020, delle raccomandazioni agli Stati in materia di interpretazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, alla luce dell’emergenza sanitaria in corso.

In particolare, l’OCSE ha suggerito ai Paesi aderenti di non considerare le situazioni temporanee determinate da tale “causa di forza maggiore“, facendo esclusivo riferimento ai comportamenti che sarebbero stati tenuti in uno scenario di normalità, senza dare rilevanza alle deviazioni dettate dall’emergenza e dai vincoli alla mobilità imposti dai governi.

Il caso analogo è quello di una persona che lavora in un paese estero e ritorna temporaneamente nel suo precedente paese “home“. In questo caso l’OCSE osserva che “è improbabile che un soggetto che si trovi costretto a permanere nello Stato di origine per ragioni temporanee ed eccezionali, quali appunto la crisi da Covid-19, ne acquisisca nuovamente la residenza nonostante lavori da tempo in un Paese estero“.

Pertanto, a parere dell’OCSE, “poiché la crisi COVID-19 è una circostanza eccezionale, nel breve termine le amministrazioni fiscali e le autorità competenti, dovranno considerare, ai fini della valutazione della residenza, un periodo di tempo che non sia influenzato da eventi eccezionali come questo ma che risulti “normale” per la persona“.

Oltre alle linee guida OCSE, l’Istante richiama l’accordo interpretativo stipulato da Italia e Francia che, sebbene non strettamente connesso al caso di specie, fornisce delle risposte alle criticità sorte a seguito della crisi.

L’accordo esclude la rilevanza ai fini dell’attribuzione della potestà impositiva dell’attività lavorativa svolta nel Paese di provenienza (Italia) da un distaccato in Francia che, in assenza di emergenza sanitaria Covid-19, avrebbe svolto la propria attività in Francia a beneficio della società distaccataria francese.

L’Istante, pertanto, osserva che sia le raccomandazioni OCSE, sia le linee guida emesse da alcuni Stati, sia l’accordo bilaterale Italia-Francia che viene citato a titolo esemplificativo, tendono a neutralizzare in diritto le distorsioni prodotte dalla pandemia invitando gli Stati membri a considerare irrilevanti le attività di lavoro in remoto ai fini dello status di residenza e sia della fonte del reddito, invitando altresì a fare riferimento alla sede di lavoro e alla routine degli spostamenti (“schedule“) in situazione di normalità, ovvero al luogo dove il lavoratore avrebbe lavorato se non vi fosse stata l’emergenza sanitaria e le relative restrizioni.

In considerazione di quanto rappresentato, l’Istante ritiene che:

  • per i dipendenti che, per cause del tutto eccezionali legate all’emergenza sanitaria, si siano trovati a soggiornare in Italia per un periodo più o meno lungo, ma inferiore a 184 giorni durante il 2020, che quindi si qualificherebbero in ogni caso non residenti ai sensi dell’articolo 2 del Tuir, il reddito di lavoro dipendente prodotto in modalità di remote working presso l’abitazione/alloggio del dipendente in Italia debba essere considerato come reddito di fonte estera e pertanto esentato da tassazione in Italia ai sensi dell’articolo 23 Tuir;
  • i dipendenti che hanno trascorso nel Paese più di 184 giorni complessivamente nel periodo d’imposta, potenzialmente qualificabili come fiscalmente residenti, considerata l’eccezionalità della situazione dovuta al Covid-19, debbano essere comunque considerati quali soggetti fiscalmente non residenti in Italia ed i relativi redditi prodotti in modalità smart working interamente di fonte estera; quindi esenti da imposizione in Italia;
  • qualora non fosse condivisa quest’ultima soluzione interpretativa, l’Istante è dell’avviso che al reddito di lavoro prodotto dai dipendenti che hanno trascorso in Italia più di 184 giorni complessivamente nel periodo d’imposta e, conseguentemente, ritenuti residenti, possa trovare applicazione l’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, ovvero determinare la base imponibile sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con decreto del Ministro del lavoro e delle Politiche sociali.

Ad avviso della Società istante, il conteggio dei giorni effettuato secondo i criteri illustrati con la circolare 16 novembre 2000, n. 207/E applicato a intervalli mobili di 12 mesi soddisfa il requisito minimo dei 183 giorni di soggiorno estero richiesto dal legislatore. Per l’effettivo conteggio dei giorni di permanenza del lavoratore all’estero rilevano, in ogni caso, nel computo dei 183 giorni, il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi.

L’Istante ritiene possibile considerare applicabili le retribuzioni convenzionali per tutto il periodo di rientro in Italia, a prescindere da quella che sia la data di inizio distacco nel 2019, in quanto nel medesimo arco temporale la condizione dei 183 giorni è sempre soddisfatta avuto riguardo all’arco dei 12 mesi precedenti.

Sulla modalità di conteggio dei giorni esteri, la Società istante fa riferimento ad un termine “mobile”, considerando che tale modalità sia in linea con la ratio stessa alla base dell’introduzione nell’ordinamento fiscale del meccanismo delle retribuzioni convenzionali, ovvero garantire l’equità dell’imposizione e non ostacolare l’impiego dei lavoratori all’estero. A parere dell’istante, ipotizzare che il periodo di 12 mesi debba essere conteggiato ad intervalli fissi finirebbe per risultare ostativo all’applicazione della norma.

Inoltre, per quanto riguarda gli adempimenti in Cina nell’istanza è precisato che:

– i redditi da lavoro dipendente prodotti nel periodo di attività svolta da remoto in Italia sono stati comunque assoggettati ad imposizione in Cina tramite dichiarazioni dei redditi mensili per ciascun dipendente oggetto dell’istanza di interpello in esame;

– per la normativa cinese, quando i costi dei dipendenti rimpatriati per l’emergenza sono addebitati all’entità cinese e l’attività è svolta a beneficio della medesima, i redditi sono considerati di fonte cinese a prescindere dal luogo fisico in cui tale attività è svolta;

– la posizione cinese è in linea con le raccomandazioni OCSE citate precedentemente.

In conclusione, è parere dell’Istante che la presenza obbligata in Italia, dettata dalle circostanze Covid-19, non debba essere presa in considerazione ai fini della determinazione della fonte del reddito e neanche della residenza fiscale, in linea con gli orientamenti internazionali e la semplificazione che ne deriverebbe per le impese multinazionali italiane e i loro dipendenti in un contesto emergenziale di grande difficoltà.

PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

Preliminarmente, si osserva che con circolare 1° aprile 2016, n. 9/E, sono state illustrate le novità del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 recante la revisione della disciplina degli interpelli.

In merito, è stato evidenziato che la relazione illustrativa al citato decreto legislativo ha precisato che «l’interpello qualificatorio, al pari dell’interpello ordinario, non può comunque avere ad oggetto accertamenti di tipo tecnico. Non potrà quindi correttamente qualificarsi istanza di interpello quella tesa ad ottenere accertamenti di fatto (ad esempio, le operazioni di classamento, di calcolo della consistenza e l’estimo catastale ovvero l’accertamento della natura illecita di un provento ai fini dell’applicazione della relativa disciplina) esperibili esclusivamente nelle sedi proprie».

Al riguardo, il documento di prassi citato ha evidenziato che attraverso questo passaggio il legislatore ha inteso escludere dall’area dell’interpello, oltre che le fattispecie esemplificativamente menzionate, tutte quelle ipotesi che, coerentemente alla natura, alle finalità dell’istituto ed alle regole istruttorie di lavorazione delle istanze, sono caratterizzate da una spiccata ed ineliminabile rilevanza dei profili fattuali riscontrabili dalla stessa amministrazione finanziaria ma solo in sede di accertamento; si tratta, in altre parole, di tutte quelle fattispecie in cui, più che rilevare l’aspetto qualificatorio, rileva il mero appuramento del fatto (cd. accertamenti di fatto).

A titolo meramente esemplificativo, la circolare n. 9/E del 2016 menziona i problemi collegati alla residenza delle persone fisiche (articolo 2 del Tuir) rispetto alla quale operano, nel sistema, sia disposizioni che stabiliscono i requisiti per la qualificazione del soggetto come residente nel territorio dello Stato (articolo 2, comma 2, del Tuir), sia disposizioni che introducono specifiche presunzioni di residenza, suscettibili di prova contraria (articolo 2, comma 2 bis, del Tuir).

In ragione della rilevanza che assumono, ai fini della determinazione della residenza, elementi meramente fattuali di cui è essenziale verificare la veridicità e completezza, possibili solo in sede di accertamento, la circolare n. 9/E del 2016 conclude che tale ipotesi è esclusa dall’area degli interpelli in esame.

Pertanto, in questa sede, lo status di residente o non residente dei lavoratori dipendenti della Società istante non sarà oggetto di valutazione, ma sarà assunto acriticamente così come rappresentato nell’istanza di interpello.

Ciò posto, nel merito della questione oggetto dell’istanza, si osserva quanto segue.

Il Segretariato dell’Ocse, con nota del 3 aprile 2020 successivamente aggiornata il 21 gennaio 2021, ha pubblicato un’analisi sull’impatto della crisi da COVID-19 sull’applicazione dei Trattati in materia fiscale, in cui focalizza l’attenzione sull’impatto che le misure sanitarie restrittive, adottate dai Paesi a seguito della pandemia, hanno sui Trattati internazionali.

Al riguardo, nel documento si precisa che l’analisi ivi contenuta rappresenta il punto di vista del Segretariato sull’interpretazione delle disposizioni dei Trattati fiscali, riconoscendo ad ogni giurisdizione la possibilità di adottare proprie indicazioni per fornire certezza fiscale ai contribuenti.

Le predette indicazioni, inoltre, riguardando unicamente i canoni ermeneutici delle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, non hanno rilevanza al fine di interpretare la normativa interna italiana.

Con riferimento alla tassazione dei redditi di lavoro dipendente, il punto di partenza di tale analisi è la constatazione che, ai fini dell’applicazione delle Pagina 9 di 15 disposizioni contenute nell’articolo 15 del modello di Convenzione OCSE, l’attività di lavoro dipendente è esercitata nel luogo ove il dipendente è fisicamente presente mentre svolge il lavoro a fronte del quale gli è corrisposto il reddito.

La competente autorità fiscale italiana ha tenuto conto dell’analisi svolta dal Segretariato dell’OCSE concludendo degli Accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nell’articolo 15 (lavoro subordinato) delle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, con l’Austria, la Francia e la Svizzera, Stati limitrofi rispetto ai quali l’incidenza della mobilità transfrontaliera dei lavoratori è particolarmente significativa.

Gli accordi sono tesi a neutralizzare le conseguenze fiscali delle misure di restrizione alla movimentazione delle persone, dovute all’emergenza Covid-19, nei confronti dei lavoratori dipendenti residenti in uno Stato contraente i suddetti Trattati.

Tali lavoratori svolgono abitualmente la loro attività nell’altro Stato contraente ma, a motivo delle misure sanitarie causate dall’emergenza Covid-19, sono costretti o esortati temporaneamente a lavorare nello Stato di residenza oppure, nel caso dei frontalieri, anche a restare nello Stato di svolgimento dell’attività lavorativa senza rientrare con cadenza giornaliera nello Stato di residenza.

Gli orientamenti contenuti nell’analisi svolta dal Segretariato dell’OCSE sono stati accolti dall’Italia, allo stato, unicamente sulla base e nei limiti dei menzionati accordi amministrativi, a condizioni di reciprocità.

Pertanto, si è dell’avviso che i citati accordi amichevoli stipulati dal nostro Paese con Austria, Francia e Svizzera non possano esplicare effetti anche nei confronti di altri Stati con i quali l’Italia ha stipulato Convenzioni per evitare le doppie imposizioni.

Analoghe conclusioni sono state illustrate in risposta ad un’interrogazione parlamentare ove è stato inoltre evidenziato che gli uffici dell’Amministrazione finanziaria, per quanto di competenza, confermano la loro disponibilità ad assicurare la trattazione di procedure amichevoli con le autorità dei Paesi interessati, ove siano rilevati casi di difficoltà o dubbi inerenti all’interpretazione o all’applicazione di specifiche disposizioni contenute nelle Convenzioni sulle doppie imposizioni, in considerazione delle circostanze verificatesi con l’emergenza sanitaria ancora in corso (Interrogazione a risposta in Commissione n. 5-04654).

In relazione alla fattispecie in esame, la rilevanza reddituale nel nostro Paese dei redditi di lavoro dipendente prodotti dai lavoratori della Società istante dovrà essere dunque valutata alla luce delle disposizioni dell’ordinamento interno e dell’Accordo stipulato tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica Popolare cinese per evitare le doppie imposizioni e per prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito, firmato a Pechino il 31 ottobre 1986 e ratificato con legge 31 ottobre 1989, n. 376.

Ciò considerato, con la prima richiesta di chiarimenti, la Società istante domanda se per i dipendenti che abbiano trascorso in Italia, durante l’anno bisestile 2020, meno di 184 giorni, il compenso relativo ai giorni di lavoro svolti in Italia sia da considerare come reddito prodotto nel territorio dello Stato da soggetti non residenti e, in quanto tale, sia da assoggettare ad imposizione in Italia.

Ai sensi dell’articolo 23, comma 1, lettera c), del Tuir, si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi di lavoro dipendente prestato, da soggetti non residenti, nel territorio dello Stato.

Tale disposizione non trova applicazione qualora il nostro Paese abbia stipulato, con lo Stato di residenza del lavoratore, una convenzione per evitare le doppie imposizioni che riconosca a quest’ultimo Stato la potestà impositiva esclusiva sul reddito di lavoro dipendente prestato in Italia.

Al riguardo, si fa presente che l’articolo 15, paragrafo 1 – Lavoro Subordinato – del citato Accordo, prevede che le remunerazioni percepite da un residente di uno Stato contraente per «l’attività dipendente» svolta nell’altro Stato contraente, sono imponibili in entrambi gli Stati.

In base al combinato disposto dell’articolo 15 della citata Convenzione e dell’articolo 23 del Tuir, la scrivente è dell’avviso che il reddito di lavoro dipendente percepito dai dipendenti della Società istante e residenti in Cina (circostanza qui assunta acriticamente), per l’attività di lavoro svolta in Italia, rilevi fiscalmente anche nel nostro Paese, ai sensi degli articoli 49 e 51, commi da 1 a 8, del Tuir.

Si fa, altresì, presente che nella fattispecie rappresentata dall’Istante non può trovare applicazione il disposto del paragrafo 2 dell’Accordo in esame, che riconosce sul reddito percepito per l’attività svolta nell’altro Stato, ma nel rispetto di tutte le condizioni ivi previste, la potestà impositiva esclusiva dello Stato di residenza dei lavoratori.

Più precisamente, il citato paragrafo 2 dell’articolo 15 prevede che « le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel detto primo Stato se:

a) il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell’anno solare considerato; e

b) le remunerazioni sono pagate da, o per conto di, un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato; e

c) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato».

Considerato che nella fattispecie in esame la remunerazione è erogata da un datore di lavoro residente in Italia, non si ritiene soddisfatta la condizione di cui alla citata lettera b) e, conseguentemente, le remunerazioni de quibus risultano imponibili in entrambi gli Stati.

La conseguente doppia imposizione sarà risolta, ai sensi dell’articolo 23, paragrafo 3, della Convenzione, attraverso il riconoscimento di un credito d’imposta da parte della Cina, Stato di residenza dei lavoratori dipendenti.

Con il secondo quesito, l’Istante chiede se la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020, dei dipendenti della Società istante abbia comportato, in linea di principio, una modifica nel loro status di residenza fiscale.

Come già sopra ricordato, la valutazione dello status di residenza di un soggetto non può essere valutata in sede di interpello, tuttavia si forniscono al riguardo i seguenti elementi di carattere interpretativo.

Ai fini della individuazione della residenza fiscale di un individuo, secondo il diritto interno e in assenza di una disposizione normativa specifica che tenga conto dell’emergenza COVID, occorre far riferimento ai criteri indicati nel citato articolo 2 del Tuir, la cui applicazione prescinde dalla circostanza che una eventuale permanenza della persona fisica nel nostro Paese sia dettata da motivi legati alla pandemia. Infatti, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Tuir «si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile».

Tanto chiarito sotto il profilo della normativa italiana, occorre altresì considerare le disposizioni convenzionali.

In particolare, nel caso di specie, assume rilievo l’articolo 4 del Trattato con la Cina che stabilisce, al paragrafo 2, le cosiddette tie breaker rules per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.

Ciò posto, si osserva come una persona fisica iscritta all’AIRE e rientrata in Italia unicamente a seguito dell’emergenza Covid potrebbe essere considerata fiscalmente residente in Italia secondo le disposizioni interne, in quanto risulterebbe avere il domicilio nel nostro Paese per la maggior parte del periodo d’imposta. Qualora si verificasse un conflitto di residenza con lo Stato estero, questo dovrebbe essere risolto facendo ricorso ai citati criteri convenzionali.

In tale ipotesi, come anche indicato al paragrafo 44 dell’analisi effettuata dal Segretariato OCSE sui trattati e l’impatto della crisi da COVID-19, nell’ipotesi in cui il soggetto disponga di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati, occorrerà verificare gli altri criteri; il conflitto di residenza sarà solitamente risolto usando il criterio del “soggiorno abituale”.

Con specifico riferimento al criterio del “soggiorno abituale”, si richiama il paragrafo 19 del Commentario del Modello OCSE in cui si precisa che il test per dirimere il conflitto di residenza non sarà soddisfatto semplicemente determinando in quale dei due Stati contraenti l’individuo ha trascorso più giorni durante il periodo interessato. Al fine di stabilire il luogo del soggiorno abituale, occorre infatti tener conto della frequenza, durata e regolarità dei soggiorni che fanno parte della routine regolare della vita di un individuo. Inoltre, l’analisi deve coprire un periodo di tempo sufficiente per poter accertare tali aspetti evitando l’influenza di situazioni transitorie.

Qualora i dipendenti della Società istante fossero da considerare residenti in Italia, con il terzo quesito si chiede se la base imponibile di lavoro dipendente possa essere determinata ai sensi dell’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, considerando fittiziamente di fonte estera il reddito derivante da attività svolta in Italia, per cause imputabili all’emergenza sanitaria e definibili di forza maggiore, con relativa spettanza del credito per le imposte assolte all’estero.

Come già evidenziato, l’analisi svolta dal Segretariato dell’OCSE volta a neutralizzare, nei confronti dei lavoratori dipendenti che svolgono l’attività lavorativa al di fuori dello Stato di residenza, le conseguenze fiscali delle misure di restrizione alla movimentazione, riguarda le sole norme convenzionali, e non ha rilievo nell’interpretazione della normativa interna. Fermo restando che detta analisi è stata accolta dall’Italia, allo stato, unicamente negli accordi am-ministrativi stipulati con la Francia, la Svizzera e l’Austria, le indicazioni del Segretariato OCSE non esplicano comunque effetti ai fini dell’interpretazione di una norma dell’ordinamento interno.

Conseguentemente, nel presupposto dello status di residenza in Italia dei lavoratori in esame, in relazione al terzo quesito, si è dell’avviso che la disciplina fiscale prevista dal comma 8-bis dell’articolo 51 del Tuir non può trovare applicazione dal momento che tale disposizione richiede il soggiorno all’estero per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi, da parte del lavoratore residente in Italia.

Ciò posto, per i motivi illustrati, nella fattispecie in esame si ravvisa lo svolgimento nel nostro Paese della prestazione lavorativa da parte di soggetti residenti.

Pertanto, non sono soddisfatte le condizioni previste dal citato comma 8bis ai sensi del quale «In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di cui all’art. 4, comma 1, del D.L. 31 luglio 1987, n. 317, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 ottobre 1987, n. 398».

La risposta all’ultimo quesito dell’Istante, volto a confermare la correttezza del metodo di conteggio dei giorni illustrato, al fine di soddisfare il requisito dei “183 giorni nell’arco di 12 mesi” previsto dall’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, si considera assorbita da quanto rappresentato in riscontro al terzo quesito.

Il presente parere viene reso sulla base degli elementi e dei documenti presentati, assunti acriticamente così come illustrati nell’istanza di interpello, nel presupposto della loro veridicità e concreta attuazione del contenuto.

(Fonte: Agenzia delle Entrate)

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