Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Bologna, con la sentenza n. 633 del 2020, ha stabilito in un caso di bullismo scolastico che deve essere sanzionata disciplinarmente l’insegnante che punisce la vittima al posto del bullo.
La vicenda riguarda una professoressa di un istituto superiore che aveva messo in punizione una studentessa, la quale, precedentemente, aveva denunciato al preside di essere stata vittima di atti di bullismo da parte dei compagni di classe, consistiti anche in lanci di oggetti da parte di alunni ripetenti delle classi superiori e con problemi caratteriali legati all’aggressività anche in ambienti extrascolastici.
L’insegnante, non dando credito alla ragazza vittima di bullismo, ma ai compagni di classe (che la bullizzavano) finiva per isolarla dal resto della classe e addirittura le infiggeva una nota disciplinare. E, come se ciò non fosse stato sufficiente, la costringeva a scrivere addirittura una lettera di scuse ai suoi compagni, mentre questi ultimi scrivevano al preside una lettera in cui denunciavano il comportamento negativo dell’alunna.
Intervenivano a quel punto i genitori della ragazza i quali segnalavano i fatti al preside, messo a conoscenza della vicenda, irrogava una sanzione disciplinare all’insegnante. Quest’ultima prontamente la impugnava in tribunale, per ottenerne la declaratoria di illegittimità, sostenendo che in realtà il suo modo di agire nei confronti della ragazza aveva la finalità di tutelarla e non di punirla.
Il giudice del Tribunale di Bologna rigettava il ricorso e confermava la legittimità della sanzione irrogata, ritenendo la situazione “paradossale”. Come si legge sul punto in sentenza, il giudice si chiede “cosa avrebbe fatto la ricorrente se avesse voluto invece sanzionarla, se per tutelarla la si è umiliata, isolata, messa alla gogna. Può succedere nella vita, nel lavoro, nei rapporti di amicizia, in qualunque situazione, che si voglia fare la cosa giusta o del bene e, involontariamente, si faccia del male, si provochi un danno.
Può darsi che ciò sia avvenuto nel caso in esame. Può darsi che la ricorrente, per qualche ragione, non si sia resa conto nella immediatezza dei fatti, dei plurimi errori che stava commettendo e del grave danno che oggettivamente effettuava alla alunna. Ma se, dopo la contestazione, non ha capito gli errori commessi ed il danno che ha causato e si difende aggredendo, dando la colpa agli altri, lodandosi, non ammettendo l’errore commesso e l’involontarietà del danno, allora o è in mala fede e non sa come giustificarsi (e la censura è davvero sanzione troppo modesta, incongrua e sproporzionata per difetto), o ricommetterà condotte simili errate e pericolose (ed ancora una volta la sanzione della censura sembra proporzionata a fini dissuasivi, se non fin troppo tenue e generosa)”.
Ad avviso del giudice infatti, gli insegnati hanno il dovere di arginare simili situazioni all’interno della classe e pertanto dare la colpa agli altri, auto-elogiarsi, non informare il preside e non ammettere i propri errori fa scattare la malafede con la conseguenza che la sanzione della censura irrogata – nel caso in esame – all’insegnate risulta essere addirittura troppo blanda, rispetto alla gravità dei fatti contestati e al comportamento tenuto dalla professoressa.