La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 50919 del 2019, ha stabilito che “il consenso dei lavoratori all’installazione di un impianto di videosorveglianza nei locali dell’impresa non vale a sanare la mancata attivazione della procedura prevista dall’articolo 4 della legge 300197’, la quale impone l’accordo sindacale o, in difetto, l’autorizzazione dell’ispettorato territoriale del lavoro” (dal Quotidiano del Lavoro del Sole 24 Ore del 18.12.2019).
I fatti di causa
La vicenda all’esame della Corte Suprema era relativa ad un datore di lavoro condannato alla pena di euro 1000,00 di ammenda per aver installato all’interno della propria azienda 16 telecamere di un impianto di videosorveglianza “al dichiarato scopo di controllare l’accesso al locale e fungere da deterrente per eventi criminosi, ma in grado di controllare i lavoratori nell’atto di espletare le loro mansioni, in assenza di un preventivo accordo sindacale ovvero della autorizzazione della sede locale dell’Ispettorato nazionale del lavoro”.
La responsabilità del datore di lavoro
Il Tribunale, nell’affermare la responsabilità datoriale ha rilevato che questi, sebbene avesse rimosso l’impianto in questione una volta che la sua istallazione gli era stata contestata, non aveva provveduto al pagamento della somma determinata a titolo di oblazione amministrativa, ritenendo che il fatto da lui compiuto non fosse penalmente rilevante. Aveva altresì considerato che aveva chiesto agli organi periferici dell’Ispettorato competente il rilascio dell’autorizzazione, ma, prima del suo conseguimento, aveva ugualmente istallato i predetti apparecchi.
Non serve la liberatoria rilasciata dai lavoratori
Ad avviso del Tribunale, poi, non valeva la circostanza che il datore di lavoro imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri dipendenti, e precedentemente inviata al detto Ispettorato, posto che il documento in questione non solo era stato formato successivamente alla materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla constatazione della sua esistenza, ma, in ogni caso, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali della Corte Suprema, esso non poteva fungere da sostituto o della esistenza dell’accordo sindacale ovvero dell’autorizzazione rilasciata dall’organo pubblico.
Il ragionamento della Corte Suprema
La Corte Suprema ha quindi ribadito che il procedimento di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, il quale prevede che l’installazione di impianti di videosorveglianza dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori può essere giustificata esclusivamente per esigenze, fra l’altro, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale, ma deve, in ogni caso, essere eseguita previo accordo stipulato con la rappresentanza sindacale unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali o, ove non sia stato possibile raggiungere tale accordo, solo in quanto preceduta dal rilascio di apposita autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, e, sotto quello sanzionatorio in caso di violazione della predetta prescrizione, nell’ambito di operatività dell’art. 38 L.n. 300/1970. Pertanto, nel caso di specie, non ha alcun rilievo la circostanza, dedotta dal datore di lavoro, secondo la quale l’impianto di videosorveglianza era stato installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in linea astratta, rendono possibile l’attivazione di tale tipo di impianti, salva, tuttavia, la realizzazione anche delle successive forme di garanzia a tutela dei lavoratori previste dalla normativa vigente in materia. E quindi in assenza dell’osservanza della procedura prevista dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, l’installazione di impianti di videosorveglianza risulta inibita.