La Corte di Appello di Roma ha stabilito che è legittimo licenziare un dipendente che durante l’orario di lavoro usa troppo internet per scopi personali. Tale scoperta era stata effettuata dopo che del tutto legittimamente il datore di lavoro aveva controllato il pc del dipendente per eliminare un virus.
Estratto dell’articolo di Giulia Bifano e Uberto Percivalle per Il Sole 24 Ore.
Il dipendente che durante l’orario di lavoro navighi sistematicamente in rete per scopi personali frammenta la giornata lavorativa in modo tale da compromettere significativamente la corretta esecuzione dei propri compiti, ledendo irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro: via libera, dunque, al licenziamento per giusta causa anche se l’azienda ha scoperto il comportamento controllando il pc. Lo ha chiarito la Corte d’appello di Roma con sentenza dell’11 marzo 2019.
Troppo internet e il computer si è infettato
La dipendente, che con la propria condotta ha anche compromesso il sistema informatico aziendale attaccato da un virus, ha impugnato il licenziamento sostenendo che il controllo effettuato dal datore di lavoro sul traffico informatico fosse avvenuto in violazione dello statuto dei lavoratori.
Il controllo del computer è legittimo per la Corte d’appello
Secondo la Corte d’appello non può dirsi illegittimo quel controllo che il datore di lavoro si ritrovi costretto a compiere per tutelare il proprio patrimonio in un momento peraltro successivo alla commissione delle condotte del dipendente.
In particolare, esorbita dal campo di applicazione delle norme il caso in cui il datore di lavoro ponga in essere verifiche atte ad accertare un comportamento illecito del dipendente, laddove le stesse traggano origine non certo dalla volontà di monitorare l’esecuzione delle mansioni, bensì dal propagarsi all’interno dei sistemi aziendali di un virus informatico.
Superato il nodo relativo alla legittimità del controllo, la Corte esamina la conclusione del tribunale in base a cui il licenziamento per giusta causa era illegittimo poiché comminato in relazione a una condotta per la quale né il Ccnl applicato, né il codice disciplinare aziendale prevedevano esplicitamente la sanzione espulsiva.
Al riguardo, afferma la Corte d’appello, viene in rilievo la nozione legale di giusta causa, intesa come «ipotesi in cui il lavoratore sia colpevole di mancanze relative a doveri anche non richiamati in particolare nel contratto, ma che siano così gravi da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto». Ebbene, proseguono i giudici, è evidente come l’intenzionale, sistematica e durevole navigazione web a scopi personali sia certamente in grado di ledere in modo definitivo il vincolo fiduciario con il datore di lavoro.
Infatti un simile comportamento vale a incidere in modo significativo sulla continuità della messa a disposizione delle energie lavorative cui il dipendente è contrattualmente tenuto, «svilendo simmetricamente la qualità dei compiti eseguiti».