La III Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione, con la Sentenza n. 14606 del 2019 ha stabilito che “il sequestro penale di stipendi e pensioni è subordinato alle limitazioni previste in caso di pignoramento civile” (dal Quotidiano del Lavoro del Sole 24 Ore del 5.4.2019).
Questi i fatti di causa.
Con ordinanza del 12.11.2018, il Tribunale di Lecco ha respinto l’appello proposto da un imprenditore (indagato per omesso versamento dell’IVA cui venivano sequestrate preventivamente somme depositate sul proprio conto corrente) avverso l’ordinanza con cui il G.I.P. dello stesso tribunale aveva rigettato l’istanza di restituzione di somme giacenti sul conto corrente bancario intestato all’indagato, sottoposte a sequestro preventivo in relazione al reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000 in funzione dell’esecuzione della confisca, diretta ed eventualmente per equivalente, del profitto del reato.
Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso il difensore dell’indagato, deducendo – per quel che qui interessa che le somme di cui era stata richiesta la restituzione erano riconducibili al pagamento di stipendi da parte della società datrice di lavoro. L’errore in cui è incorso il tribunale nel ritenere che l’art. 104, lett. a) disp. att. cod. proc. pen. consenta il sequestro ai sensi dell’art. 545 c.p.c., valendo il rinvio operato dalla disposizione penale al codice di rito civile soltanto con riguardo alle modalità esecutive del pignoramento e non anche agli aspetti sostanziali quali i limiti previsti dalla legge. Questi sarebbero invece indicati negli artt. 1 e 2 d.P.R. 180/1950, che, vietando – tra l’altro – il sequestro delle somme riconducibili a stipendio nei limiti eccedenti il quinto, avrebbe valore di regola generale dell’intero ordinamento processuale, finalizzata alla tutela di un diritto fondamentale garantito dall’art. 2 Cost., come affermato dalla giurisprudenza di legittimità citata in ricorso. Pena un’irragionevole disparità di trattamento, detto limite opererebbe non soltanto quando il sequestro avvenga presso il datore di lavoro obbligato alla corresponsione, ma anche laddove gli stipendi siano stati versati con accredito bancario, senza che possa opporsi l’intervenuta “confusione” di esse nel patrimonio dell’interessato allorquando – come avvenuto nel caso di specie – sia stata fornita prova documentale della provenienza.
Deduceva ancora il ricorrente, con il secondo motivo, che – quand’anche dovesse ritenersi operante l’art. 545 c.p.c., a seguito della modifica di detta disposizione disposta con l. 132/2005 gli stipendi sarebbero comunque insequestrabili limitatamente ad una somma pari al triplo della pensione sociale.
La Corte Suprema accoglieva il ricorso rendendo il seguente principio di diritto: “il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente non può essere eseguito su somme corrispondenti al triplo della pensione sociale giacenti sul conto corrente del destinatario della misura allorquando sia certo che tali somme sono riconducibili ad emolumenti corrisposti nell’ambito del rapporto di lavoro o di impiego”.