La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con Ordinanza n. 6150 del 2019, ha stabilito che il lavoratore ha diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina alla residenza del familiare disabile bisognoso di assistenza, non solo al momento della instaurazione del rapporto di lavoro, ma anche in caso di domanda di trasferimento.
Vediamo insieme i fatti di causa.
- La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 292 depositata il 6.5.2014, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato il diritto di (OMISSIS) a scegliere la sede di lavoro più vicina al Comune di Portici, domicilio della sorella (OMISSIS), necessitante di assistenza ed ha ordinato a (OMISSIS) s.p.a. il trasferimento del dipendente presso la sede di (OMISSIS) e (OMISSIS), o in altra sede più vicina al Comune di Portici tra quelle disponibili alla data della domanda di trasferimento o divenute successivamente tali;
- la Corte territoriale, richiamata la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3896 del 2009; n. 28320 del 2013), ha ritenuto, difformemente dal primo giudice, come la L.n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, modificato dalla L. n. 53 del 2000 e poi dalla L. n. 183 del 2010, dovesse trovare applicazione non solo nella fase genetica del rapporto quanto alla scelta della sede, ma anche in ipotesi di domanda di trasferimento proposta dal lavoratore;
- ha sottolineato come, per effetto della L.n. 183 del 2012, articolo 24  , non fossero più richiesti i requisiti di continuità ed esclusività dell’assistenza in favore del familiare, previsti, invece, L.n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, nel testo risultante dopo le modifiche apportate dalla L. n. 53 del 2000, articoli 19 e 20; ha inoltre rilevato come, in base al testo vigente all’epoca della domanda di trasferimento del (OMISSIS) (16.3.2011), dovesse aversi riguardo al domicilio non del lavoratore bensì della persona necessitante di assistenza;
- ha ritenuto integrati nel caso in esame sia il requisito soggettivo, cioè la condizione di handicap grave della sorella del (OMISSIS), e sia il requisito oggettivo della disponibilita’ di posti per lo svolgimento delle mansioni di recapito in uffici vicini alla residenza del predetto familiare;
- avverso tale sentenza (OMISSIS) s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui ha resistito con controricorso il lavoratore;
- il sig. (OMISSIS) ha depositato memoria, ai sensi dell’articolo 380 bis.1. c.p.c..
Relativamente alle censure avanzate dal ricorrente, per quel che qui interessa, la Sezione Lavoro ha avuto modo di ribadire che in riferimento L.n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, nel testo anteriore alle modifiche di cui alla L. n. 53 del 2000, ha statuito come la norma di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, articolo 33, comma 5, sul diritto del genitore o familiare lavoratore “che assista con continuita’ un parente o un affine entro il terzo grado handicappato” di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro piu’ vicina al proprio domicilio, e’ applicabile non solo all’inizio del rapporto di lavoro mediante la scelta della sede ove viene svolta l’attivita’ lavorativa, ma anche nel corso del rapporto mediante domanda di trasferimento. La ratio della norma e’ infatti quella di favorire l’assistenza al parente o affine handicappato, ed e’ irrilevante, a tal fine, se tale esigenza sorga nel corso del rapporto o sia presente all’epoca dell’inizio del rapporto stesso. La Corte ha proseguito sul punto evidenziando che tale interpretazione si impone, a maggior ragione, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 53 del 2000, che ha eliminato il requisito della convivenza tra il lavoratore e il familiare handicappato, e poi con la L. n. 183 del 2010, articolo 24 che, intervenendo sulla L.n. 53 del 2000, articolo 20, comma 1, ha eliminato i requisiti della “continuita’ ed esclusivita'” dell’assistenza; la L.n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, risultante all’esito di tali interventi normativi ed applicabile ratione temporisalla fattispecie in esame e’ formulato nel modo seguente “Il lavoratore di cui al comma 3 (il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravita’) ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro piu’ vicina al domicilio della persona da assistere e non puo’ essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”. Pertanto dal punto di vista letterale, la disposizione in esame non contiene un espresso e specifico riferimento alla scelta iniziale della sede di lavoro e risulta quindi applicabile anche alla scelta della sede di lavoro fatta nel corso del rapporto, attraverso la domanda di trasferimento; ne’ la dizione letterale adoperata nel citato comma 5 dell’articolo 33 implica la preesistenza dell’assistenza in favore del familiare rispetto alla scelta della sede lavorativa (anche a seguito di trasferimento), in quanto al lavoratore e’ riconosciuto il diritto di “scegliere la sede di lavoro” piu’ vicina al “domicilio della persona da assistere”, non necessariamente gia’ assistita. Tale rilievo priva di consistenza l’osservazione della societa’ ricorrente sulle implicazioni del riferimento nell’articolo 33, comma 5, nel testo ratione temporis applicabile, alla condizione di handicap grave che presuppone la necessita’ di assistenza “permanente, continuativa e globale”; quest’ultima e’ il tipo di assistenza di cui ha bisogno la persona in condizione di handicap grave ma non e’ necessariamente l’assistenza che fara’ carico sul singolo familiare, anche in ragione della soppressione del requisito di esclusivita’ dell’assistenza ai fini delle agevolazioni di cui si discute. Inoltre la previsione di cui al citato comma 5 dell’articolo 33, al pari delle disposizioni sui permessi mensili retribuiti di cui al comma 3, rientra nel novero delle agevolazioni e provvidenze riconosciute, quale espressione dello Stato sociale, in favore di coloro che si occupano dell’assistenza nei confronti di parenti disabili e cio’ sul presupposto che il ruolo delle famiglie “resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte Cost. n. 213 del 2016; n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).
La Cassazione ha quindi rigettato il ricorso della società datrice di lavoro.