La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 11322 del 2018, ha stabilito che è legittimo registrare conversazioni al lavoro da parte di un dipendente all’insaputa dei colleghi, se serve per tutela dei propri diritti. A tale stregua dunque: “è illegittimo il licenziamento del lavoratore che registra le conversazioni dei colleghi (alle quali partecipa) e fa anche dei filmati all’insaputa di questi, se non diffonde i dati ma li raccoglie in vista di un eventuale procedimento giudiziario. Per il ricorrente – spiega la Cassazione – era il solo modo possibile per acquisire prove del comportamento scorretto tenuto nei suoi confronti, visto il clima di omertà che si era creato sul posto di lavoro. Il licenziamento era scattato per violazione della privacy, per la Suprema Corte invece i dati possono essere raccolti nel legittimo esercizio di un diritto” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 11 maggio 2018).
Vediamo insieme i fatti di causa di cui alla sentenza n. 11322 del 2018.
Con sentenza n. 1298/2015 pubblicata il 26.11.2015, la Corte di appello di L’Aquila, decidendo sul reclamo proposto da …., avverso la decisione del Tribunale di Vasto n. 102 del 25.5.2015 (che, nella fase di opposizione ex art. 1, co, 51 e ss., della L. n. 92/2012, aveva confermato il rigetto del ricorso ex art. 1, co. 48 e ss., legge n. 92/2012 proposto dal .. nei confronti della … spa, inteso ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento allo stesso intimato in data 29.3.2013 e la reintegra nel posto di lavoro) in riforma della pronuncia del Tribunale, riteneva l’illegittimità del provvedimento espulsivo per sproporzione rispetto ai fatti contestati e per l’effetto condannava la società a corrispondere al lavoratore, a titolo di risarcimento, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Ad avviso della Corte territoriale, gli elementi forniti dall’appellante a dimostrazione dell’inesistenza del motivo addotto a giustificazione del licenziamento non erano sufficienti per considerare il carattere ritorsivo ovvero discriminatorio del provvedimento espulsivo.
Per il resto, quanto ai fatti oggetto della contestazione disciplinare che avevano condotto al licenziamento del .. (consistiti nell’aver il dipendente, in sede di giustificazioni orali in merito ad altra precedente contestazione della società, consegnata una chiavetta USB contenente registrazioni di conversazioni effettuate in orario di lavoro e sul posto di lavoro coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi e nell’aver il medesimo provveduto ad ulteriori registrazioni anche video come riportato in sede di segnalazione da parte di colleghi di lavoro che avevano riferito di aver visto il … continuamente scattare foto, girare video, registrare conversazioni sul posto di lavoro senza alcuna autorizzazione da parte loro, il tutto in violazione della legge sulla privacy e con la recidiva rispetto ad altre precedenti contestazioni), la Corte di merito, dopo aver riconosciuto il contesto in cui andava inquadrata la condotta che aveva portato alle contestazioni, così argomentava: – il … aveva adottato tutte le cautele al fine di evitare la diffusione dei dati raccolti e, contrariamente a quanto riportato nella lettera di contestazione circa le segnalazioni di suoi colleghi di lavoro, le persone registrate non avevano saputo nulla di tali registrazioni prima di esserne informati dal direttore delle risorse umane cui erano stati trasmessi i files delle registrazioni consegnati dal dipendente su pennetta USB ad un delegato dell’azienda in occasione di un incontro relativo a precedente contestazione disciplinare; il … non aveva in alcun modo utilizzato o reso pubblico il contenuto di quelle registrazioni per scopi diversi dalla tutela di un proprio diritto; – era da escludersi la configurabilità nella vicenda di ogni rilevanza penale e sussisteva l’ipotesi derogatoria, rispetto alla necessità di acquisire il consenso dei soggetti privati interessati dalle registrazioni, in ragione nelle finalità del lavoratore di documentare le problematiche esistenti sul posto di lavoro e di salvaguardare la propria posizione di fronte a contestazioni dell’azienda “non proprio cristalline”.
La condotta del dipendente, pertanto, pur potendo essere motivo di sanzione disciplinare – in relazione al clima di tensione e di sospetti venutosi a creare tra gli “ignari” colleghi dopo la “rivelazione” delle registrazioni – tuttavia non era tale da integrare un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. La ritenuta sproporzione del licenziamento intimato aveva quale conseguenza l’applicazione dell’art. 18, co. 5, della L.n. 300/1970 come novellato dalla legge n. 92/2012.
Proponeva ricorso per cassazione il lavoratore che veniva accolto dalla Corte Suprema con il principio di diritto sopra enunciato.