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Secondo il Tribunale del Lavoro di Parigi agli autisti Uber non viene riconosciuto il diritto ad essere inquadrati come lavoratori subordinati (sentenza del 29 gennaio 2018), mentre agli autisti Uber della Gran Bretagna tale status è stato riconosciuto dallo scorso novembre.

Ma vediamo cosa sta accadendo, con l’articolo pubblicato oggi (9.2.2018) dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore (firma: M. Caprino; Titolo: In Francia no al lavoro subordinato per gli autisti Uber, in Gran Bretagna si. Per la Corte Ue non basta la app”) che di seguito riportiamo.

Gli autisti francesi di Uber non hanno diritto a essere inquadrati come lavoratori dipendenti: lo ha stabilito il Tribunale del lavoro di Parigi, con un provvedimento depositato il 29 gennaio di cui si è avuta notizia ieri. Agli autisti inglesi, invece, questo status era stato riconosciuto anche in appello, non più tardi dello scorso novembre. Altre cause ci sono state nel mondo (soprattutto negli Usa), con decisioni che nella maggior parte dei casi hanno dato ragione a Uber. In ogni caso, non si può dire che ci sia una giurisprudenza costante. Ed è prevedibile che ci saranno sempre contrasti fino a quando non sarà stato inquadrato l’elemento fondante dell’attività della multinazionale americana: l’uso di strumenti telematici.

Si tratta dei “contratti di servizio” conclusi a distanza con cui gli autisti entrano a far parte del circuito Uber e della app con cui i clienti richiedono una corsa e i conducenti accettano la loro richiesta.

Nel caso di Parigi, un autista aveva “firmato” il contratto telematico a ottobre 2014 prendendo la partita Iva e iscrivendosi in proprio nel locale registro dei conducenti autorizzati al servizio di noleggio con conducente. Ma poi aveva chiesto il riconoscimento del rapporto di lavoro dipendente, lamentando di essere costretto ad accettare tutte le corse e portando come prova soprattutto il peggioramento delle sue condizioni di salute, a causa dello stress causato da quest’obbligo. Ma dal testo della sentenza si evince che l’unico elemento di prova da lui portato è il fatto che il malessere lo ha portato a uscire dal circuito, nell’agosto 2016, contestando formalmente le condizioni di lavoro.

I giudici di Parigi hanno invece ritenuto prevalente il fatto che non c’è prova dell’impossibilità di rifiutare le corse prenotate tramite la app. Nel caso deciso a Londra, invece, era emerso un obbligo di accettare almeno l’80% delle corse.

Che la possibilità di rifiutare sia l’elemento discriminante tra il lavoro subordinato e quello autonomo e pacifico, anche per la giurisprudenza della Corte Ue. Il problema sta nel dimostrare che chi rifiuta è soggetto a sanzioni: è pacifico pure che si ha lavoro subordinato non solo quando queste vengono irrogate formalmente, ma anche quando il rifiuto comporta conseguenze negative di qualunque tipo. Quando di mezzo c’è una app, tutto si fa sfumato: non è facile indagare su come sono impostati i software.

Così, mentre i giudici francesi si sono limitati a constatare che la app è un mero strumento di intermediazione tra cliente e autista (per cui Uber non entra nel servizio di trasporto), quelli inglesi hanno considerato dimostrato il fatto che un conducente può essere “licenziato” dalla multinazionale se non accetta almeno l’80% delle corse che la app gli propone (circostanza che Uber ha smentito). A Londra sono stati considerati anche elementi apparentemente neutri, come il fatto che sulla app il cliente può esprimere un giudizio sull’autista e da esso dipenderebbe anche il trattamento che Uber riserva al lavoratore.

Una pronuncia importante e recente sul ruolo della app è stata quella della Corte Ue sulla Causa C-434_15, anche se non si discuteva di inquadramento degli autisti bensì di concorrenza sleale (peraltro della formula Uber Pop, con autisti non professionisti) nei confronti dei tassisti. Il 20 dicembre 2017 la Corte ha stabilito che non è certo l’utilizzo della app a consentire di inquadrare le attività di Uber nel trasporto passeggeri come un semplice servizio di intermediazione (soggetto solo alla direttiva sul commercio elettronico) tra clientela e autisti, che per la multinazionale americana effettuano il trasporto in modo indipendente e quindi sarebbero i soli soggetti alle leggi nazionali sul trasporto. Per la Corte, la app è parte integrante del trasporto e quindi rientra nella sua regolamentazione, per cui le norme nazionali sui trasporti si dovrebbero applicare anche a Uber.

Il problema se considerare l’uso della app sufficiente per considerare Uber come un mero intermediario si è posto anche in Italia. Anche qui in materia di concorrenza sleale (finora non si ha notizia di cause di lavoro intentate da conducenti italiani contro Uber). Il 7 aprile 2017, nella sua prima Ordinanza sulla questione, anche la Sezione imprese del Tribunale di Roma aveva negato che la app consentisse a Uber di chiamarsi fuori dal contratto di trasporto. Il 26 maggio successivo, la stessa Sezione (sia pure con altri giudici) aveva fatto passare in secondo piano questo elemento, ammettendo comunque che il problema si pone e va superato con nuove leggi che tengano conto del progresso tecnologico.

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