Licenziamenti collettivi e individuazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare:
Sulla questione dei licenziamenti collettivi e individuazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare per ristrutturazione aziendale, esistono tra i giudici di merito orientamenti contrastanti, come nel caso del Tribunale di Roma dove un giudice ha disposto la reintegra di 153 ex dipendenti Almaviva, mentre altri 11 giudici dello stesso Tribunale hanno ritenuto legittimi i licenziamenti collettivi di altri 26 lavoratori (sempre) Almaviva, licenziati con le stesse modalità dei 153 reintegrati.
Ma proviamo a chiarirci le idee sull’iter dei licenziamenti collettivi con l’articolo pubblicato oggi (6.12.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: Aldo Bottini; titolo: “Nei licenziamenti collettivi fa fede l’accordo sindacale”) che di seguito riportiamo.
Giornali e siti internet hanno recentemente riportato, con grande evidenza, la decisione di un giudice del lavoro di Roma che, con cinque distinte ordinanze, ha reintegrato nel posto di lavoro 153 ex dipendenti di Almaviva, licenziati nell’ambito di una riduzione del personale che aveva interessato oltre 1.500 lavoratori. Non altrettanto rilievo mediatico hanno avuto le 26 decisioni di altri undici giudici romani, che hanno invece ritenuto legittimi i licenziamenti, respingendo i ricorsi di altri lavoratori.
La vicenda offre comunque l’occasione di fare il punto su alcune controverse questioni in materia di licenziamento collettivo, e in particolare sull’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare.
La parte più corposa del provvedimento è dedicata alla valutazione della decisione di Almaviva di non considerare, ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, l’intero organico aziendale. Tale scelta è sufficiente, secondo l’estensore del provvedimento di reintegrazione, a far ritenere illegittimi i licenziamenti.
Il tema è delicato, e non certo nuovo. Al riguardo, la giurisprudenza della Cassazione è abbastanza uniforme, al punto che alcune sue più recenti decisioni vengono richiamate tanto nelle ordinanze che accolgono le domande dei lavoratori quanto in quelle che le respingono. Ha affermato più volte la Cassazione che, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un’unità produttiva o a un settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da licenziare, può essere limitata agli addetti all’unità o al settore da ristrutturare, purché tale limitazione sia obiettivamente giustificata dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione del personale. E purché le ragioni siano puntualmente enunciate nella lettera di apertura della procedura.
Da tutte le ordinanze emesse dal tribunale di Roma emerge altresì che la limitazione dell’ambito di applicazione dei licenziamenti alla sede romana non era stata osteggiata dai sindacati nel corso della procedura e anzi era stata accettata e prevista nell’accordo finale.
Sulla scorta di tali circostanze, nelle ordinanze dei giudici che hanno respinto i ricorsi dei lavoratori si afferma che un accordo collettivo ben può limitare l’ambito di comparazione a una sola unità, e che tale limitazione nella fattispecie rispondeva in ogni caso a criteri di razionalità e ragionevolezza, ai quali comunque devono uniformarsi i criteri di scelta convenuti negli accordi sindacali.
Al contrario, il giudice che ha reintegrato i lavoratori sostiene che un accordo sindacale (nella fattispecie peraltro ritenuto insussistente o comunque non chiaro sul punto) non possa comunque derogare al criterio legislativamente imposto dell’applicazione dei criteri di scelta all’intero complesso aziendale. Ignorato quindi l’accordo sindacale, esamina le ragioni che secondo Almaviva giustificavano la mancata comparazione estesa al complesso aziendale e le giudica inidonee a fondare la restrizione della platea dei lavoratori, considerata la sostanziale fungibilità di questi ultimi, che deve prevalere sui costi e la praticabilità dei trasferimenti.
Come si vede, al di là del clamore mediatico, la questione di carattere generale che la vicenda solleva è fondamentalmente la seguente: fino a che punto può spingersi il controllo giudiziale sulle ragioni organizzative (illustrate nelle comunicazione di apertura della procedura) che ostano a una comparazione dei lavoratori estesa all’intero organico aziendale, soprattutto in presenza di un accordo sindacale che tali ragioni recepisce e avalla? L’assoluta maggioranza dei giudici che si sono sinora pronunciati riconosce all’accordo sindacale il potere di delimitare l’ambito di applicazione dei criteri e attribuisce ad esso preminenza, limitandosi a verificare che le ragioni ostative alla considerazione dell’intero complesso aziendale siano state indicate nella comunicazione di apertura ed appaiano, in via generale, razionali e ragionevoli.
Una posizione coerente con l’impianto della legge 223/1991, che ha segnato (come viene opportunamente ricordato in alcune delle ordinanze) il passaggio da un controllo giurisdizionale “ex post” ad un controllo devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali. Con la conseguenza che il sindacato del giudice può riguardare unicamente la correttezza della procedura, non i motivi e il merito della riduzione del personale. Motivi e merito che rischiano, invece, di essere intaccati laddove lo stesso accordo sindacale venga svalutato a favore di un penetrante controllo giudiziale, che ecceda i limiti assegnati dall’ordinamento.LA VICENDA
AVVIO DELLA PROCEDURA
Almaviva aveva aperto, nell’ottobre 2016, una procedura di licenziamento collettivo motivata dall’intenzione di chiudere l’intera sede di Napoli e le due divisioni della sede di Roma dedicate ai servizi di call center in modalità inbound. Nella comunicazione di apertura della procedura si precisava che la decisione di chiudere le sedi di Napoli e Roma (salvo il mantenimento in quest’ultima di specifiche funzioni di direzione e di ricerche di mercato) era fondata sull’andamento fortemente negativo proprio di tali unità, che riportavano perdite non più sostenibili. Nel medesimo documento si enunciavano le ragioni che portavano a limitare i licenziamenti alle sedi di Roma e Napoli, escludendo la possibilità di comparare, ai fini della scelta, i lavoratori di quelle sedi con quelli impiegati nelle altre sedi (Milano, Catania, Rende e Palermo)
LA SCELTA DI NAPOLI
All’esito della procedura, nel dicembre 2016, veniva raggiunto, su impulso del ministero dello Sviluppo economico, un accordo che dava atto della disponibilità delle Rsu di Napoli a proseguire il confronto, con l’impegno ad individuare soluzioni di recupero di efficienza e produttività e di interventi sul costo del lavoro che consentissero di allineare la sede di Napoli alle altre sedi aziendali. Soluzioni che successivamente, in un altro accordo sottoscritto nel febbraio 2017, sono state trovate. A fronte dell’impegno a negoziare veniva attivata, in favore dei dipendenti della sede napoletana, la Cigs per tre mesi, al fine di consentire la prosecuzione del confronto
L’OPPOSIZIONE DI ROMA
A tale confronto invece le Rsu di Roma si dichiaravano indisponibili, non sottoscrivendo l’accordo. Ragion per cui, nell’accordo del dicembre 2016, si prevedeva che gli esuberi della sede di Roma sarebbero stati gestiti «mediante l’applicazione, per la medesima sede, dei criteri di scelta legali». I lavoratori della sede di Roma quindi sono stati tutti licenziati, senza compararli, ai fini dell’applicazione dei criteri legali di scelta, con i dipendenti addetti alle altre sedi operanti sul territorio nazionale