Denuncia datore di lavoro per maltrattamenti e lesioni personali:
La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 22375 del 2017, ha stabilito che la denuncia nei confronti del datore di lavoro per maltrattamenti e lesioni personali riconducibili a fatti avvenuti in costanza di rapporto di lavoro, non è idonea a giustificare il licenziamento in tronco anche se tali accuse in sede penale fossero risultate false.
E di questo interessante argomento ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (27.9.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “Datore denunciato, recesso solo per calunnia”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
La denuncia formulata da una lavoratrice, nei confronti del legale rappresentante della società, di maltrattamenti e lesioni personali ricollegati ad una condotta vessatoria asseritamente subita in costanza del rapporto di lavoro, non è idonea a giustificare il licenziamento in tronco intimato dal datore di lavoro, quand’anche le accuse formulate in sede penale non fossero risultate veritiere. Rileva la Corte di cassazione (sentenza 22375, depositata ieri) che la denuncia di condotte penalmente sanzionabili riconducibili al contesto aziendale è idonea ad integrare giusta causa di licenziamento solo se ne emerga il carattere calunnioso, nel senso che il lavoratore che ha sporto la querela deve essersi mosso nella consapevolezza della non veridicità dei fatti ascritti al legale rappresentante.
Aggiunge la Corte che l’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 del Codice civile, cui è tenuto il lavoratore nell’esecuzione del rapporto di lavoro, non può essere spinto al punto di imporre al dipendente di astenersi dal denunciare fatti penalmente sanzionabili che egli ritenga essere stati consumati in ambito aziendale. Una tale lettura della norma codicistica finirebbe per avvalorare una sorta di “dovere di omertà”, dando spazio ad una ricostruzione sulle dinamiche del rapporto di lavoro che non può trovare ingresso nell’ordinamento.
Il caso sottoposto alla Cassazione era relativo al licenziamento per giusta causa di una lavoratrice che, sulla scorta di iniziative vessatorie asseritamente subite dal legale rappresentante dell’impresa, aveva sporto una denuncia-querela, poi conclusasi in sede penale con l’archiviazione. A fondamento del licenziamento il datore di lavoro aveva affermato l’irreparabile lesione del dovere di fedeltà a presidio del corretto svolgimento del rapporto di lavoro. La Corte d’appello territoriale, riformando la sentenza del Tribunale di Bologna, aveva confermato la legittimità del licenziamento, osservando, tra l’altro, che il diritto di denuncia va esercitato nel rispetto dei principi di continenza formale e sostanziale, nel caso di specie travalicati dalla lavoratrice per aver denunciato fatti privi di effettivo rilievo in sede penale.
La Cassazione ribalta questa prospettiva e osserva che alla denuncia non possono essere applicati i principi di continenza previsti per l’esercizio del diritto di critica, ulteriormente rilevando che la circostanza per cui il procedimento penale era stato definito con l’archiviazione della notitia criminis non è sufficiente a connotare la denuncia in termini di calunnia.
Nell’ambito del rapporto di lavoro, conclude la Corte, la denuncia di fatti penalmente rilevanti non può essere fonte di responsabilità disciplinare, a meno che l’iniziativa sia stata assunta strumentalmente, nella consapevole convinzione dell’insussistenza dei fatti o della loro non riconducibilità ad una responsabilità datoriale. Tutto ciò, salvo che il lavoratore abbia intrapreso iniziative volte a dare pubblicità ai fatti oggetto di denuncia.