Repêchage e licenziamento illegittimo per violazione dell’obbligo:
Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 3370 del 2016, ha dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice per violazione dell’obbligo di repêchage poiché dopo le modifiche all’art. 2103 del codice civile introdotte dal Jobs Act (D.Lgs. n. 81/2015, art. 3) la nozione di equivalenza delle mansioni è stata superata dal concetto di “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento”.
E di obbligo di repêchage come interpretato dalla sentenza 3370/2016 del Tribunale di Milano ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (7.3.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “Obbligo “repêchage” su tutte le mansioni di pari inquadramento”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Ad avviso del Tribunale di Milano l’obbligo di “repechage” che incombe sul datore di lavoro, il quale intenda procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di uno o più dipendenti, risulta più rigoroso dopo le modifiche alla disciplina dell’articolo 2103 del Codice civile introdotte dall’articolo 3 del Dlgs 81/2015 (decreto sul riordino delle tipologie contrattuali attuativo del Jobs Act).
Quest’ultima disposizione, come rimarcato dal Tribunale di Milano (sentenza 3370 del 16 dicembre 2016), ha comportato il superamento della nozione di equivalenza delle mansioni, che costituiva il precedente parametro a cui era vincolato il datore nell’assegnazione di nuove funzioni ai propri dipendenti, sostituendola con il concetto di mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento.
In forza della nuova nozione legale, lo ius variandi del datore di lavoro, che consente la modifica unilaterale delle attività assegnate ai dipendenti, non è più ancorato a una verifica (di natura sostanziale e formale) sull’equivalenza delle nuove mansioni rispetto a quelle precedentemente svolte dai lavoratori. Per effetto del nuovo dettato codicistico tutte le mansioni che rientrano nel livello di inquadramento attribuito ai dipendenti sono esigibili, senza che il lavoratore possa lamentare come, sul piano operativo o in relazione ad una possibile progressione di carriera, le nuove attività abbiano contenuto peggiorativo o non rientrino nel pregresso bagaglio di competenze professionali maturate.
Il Tribunale rimarca che questa disciplina, oggi confluita nel rinnovato articolo 2103 del codice civile, se da un lato rende più flessibile l’organizzazione del lavoro a beneficio dell’impresa, d’altro lato comporta un aggravamento dell’onere della prova per il datore di lavoro che si accinga a licenziare un dipendente in presenza di una riorganizzazione aziendale frutto di una conclamata crisi finanziaria.
L’ambito di indagine in merito all’esistenza di posizioni alternative ove poter ricollocare il lavoratore di cui sia stata soppressa la funzione, alla luce del nuovo contesto normativo, deve abbracciare tutte le attività aziendalmente disponibili che appartengono al livello di inquadramento in cui quel medesimo lavoratore risulta inquadrato.
La sentenza del Tribunale di Milano costituisce un interessante approdo relativamente all’applicazione delle nuove regole dettate dall’articolo 2103 del codice civile con specifico riferimento al potere datoriale di modifica delle mansioni dei dipendenti. Se da un lato, infatti, la novella introdotta dal Jobs Act aumenta gli ambiti di autonomia all’interno dei quali l’impresa può liberamente modificare il contenuto delle mansioni assegnate ai propri dipendenti, dall’altro quella stessa norma introduce vincoli più stringenti nella verifica del “repechage”.
Il Tribunale di Milano afferma con chiarezza che, nel verificare la possibilità di adibire il lavoratore eccedentario ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale, il datore non può limitarsi alle mansioni professionali equivalenti, ma deve necessariamente contemplare tutte le mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento.