Amministratori e società, non è un rapporto di parasubordinazione:
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1545 del 2017, rivoluzionando il proprio orientamento consolidato in materia, ha stabilito che il rapporto di lavoro che intercorre tra amministratori e società non è da considerarsi come rapporto parasubordinato ma come “un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.”.
E del rapporto tra amministratori e società, alla luce della sentenza 1545/2017 ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (28.2.2017) dal Sole 24 Ore (firma: Angelo Zambelli; Titolo: “Fra amministratori e società strategico il service agreement”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
La recente pronuncia della Cassazione Sezioni Unite n. 1545/2017 apre molteplici interrogativi circa l’utilità degli strumenti contrattuali per regolare l’assetto dei rapporti che legano le società e i loro consiglieri di amministrazione (…).
Nonostante l’indubbia importanza, la materia soffre ancora oggi l’assenza di una regolamentazione legislativa che vada oltre i riflessi fiscali e contributivi del rapporto (articolo 50, comma 1, lett. c-bis, Tuir; articolo 2, comma 26, Legge n. 335/1995), sicché il difetto di una disciplina sostanziale era stato sin qui colmato dalla giurisprudenza di legittimità con la qualificazione del rapporto nei termini di un’attività «continua, coordinata e prevalentemente personale» (Cass. SS.UU. n. 10680/1994) con conseguente assoggettamento delle controversie al rito del lavoro (articolo 409, n. 3, Codice di procedura civile).
Si era così tracciato un quadro coerente con la riconduzione del rapporto tra amministratore e società nell’alveo del lavoro cosiddetto “parasubordinato”, e tale scelta di campo aveva trovato sponda normativa nella disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative introdotta dalla riforma Biagi(articolo 61, comma 3, Dlgs n. 276/2003), che sembrava conservare la propria validità anche a seguito del riordino delle tipologie contrattuali operato con il Jobs Act, il quale annovera le «attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società» tra le collaborazioni organizzate dal committente di cui all’articolo 2 del Dlgs n. 81/2015.
La portata precettiva di tale ultima disposizione non sembra essere stata tenuta in alcun conto dalla Corte di cassazione che, con un’interpretatio abrogans e modificando il proprio orientamento, ha affermato che tra amministratore e società intercorre solamente «un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.».
Le Sezioni Unite sembrano quindi cancellare con un colpo di spugna la dimensione intimamente “lavoristica” del rapporto tra amministratori e società, così trascurando di considerare che esiste una classe di lavoratori per cui l’attività gestoria altro non è che il naturale coronamento di una carriera manageriale svolta “professionalmente”, con ciò intendendo che il compenso percepito per l’attività gestoria è, in ultima istanza, ciò di cui l’amministratore vive.
A seguito di questo nuovo arresto giurisprudenziale (rigoroso sul piano dell’analisi giuridica, eppure non del tutto soddisfacente nella misura in cui accomuna sotto la medesima etichetta figure tra loro eterogenee quali, ad esempio, consiglieri esecutivi e non esecutivi, amministratori indipendenti e consiglieri “dipendenti”), si pone per gli operatori del diritto la necessità di individuare gli strumenti con cui regolamentare in via pattizia lo svolgimento e la cessazione della carica di amministratore.
Al riguardo non pare in discussione la perdurante utilità dei cosiddetto service agreement tra manager e società che, nella prassi, assumono spesso la struttura della promessa del fatto del terzo (articolo 1381 del Codice civile) e contengono l’impegno dell’organo esecutivo o del rappresentante legale(tipicamente in persona del Ceo o del Presidente del cda) a far sì che la Società, per il tramite dei propri organi collegiali (assemblea, cda) garantisca all’amministratore l’applicazione di determinate condizioni cristallizzate nel service agreement.
Il manager, sia pur indirettamente, è così tutelato in quanto, in caso di violazione di tale accordo, la società comunque risponderà contrattualmente degli impegni assunti in proprio con la stipulazione del service agreement.
Un’ulteriore area di residua ma indubbia utilità degli strumenti contrattuali ad oggi in uso e che pare esulare dal portato della decisione delle Sezioni Unite è sicuramente il caso (tutt’altro che infrequente nell’ambito dei gruppi di imprese)in cui al manager, titolare di un rapporto di lavoro dirigenziale, sia affidata la responsabilità e il compito (ovvero la “mansione”) di amministrare una diversa società del gruppo (ad esempio una società partecipata e/o controllata), ben potendo l’attività gestoria di una diversa entità giuridica costituire l’oggetto del contratto di lavoro subordinato.