Inabilità assoluta e licenziamento nel pubblico impiego:
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19774 del 2016 ha reso il seguente principio di diritto in tema di inabilità assoluta e permanente al lavoro nel pubblico impiego: la forma tipica del recesso del datore di lavoro è, anche per l’impiego privatizzato, quella del licenziamento, senza che, in difetto di norme speciali, possano trovare ingresso cause di risoluzione automatica del rapporto.
E parlarci approfonditamente della decisione della Corte Suprema e di inabilità assoluta e permanente nel pubblico impiego è anche l’articolo pubblicato oggi (5.10.2016) dal Sole 24 Ore che vi proponiamo (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “Pa, inabilità con licenziamento”).
Ecco l’articolo.
Il recesso datoriale intervenuto nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego a seguito di accertamento medico di inabilità assoluta e permanente alle mansioni non costituisce ipotesi di risoluzione automatica del contratto di lavoro, ma integra gli estremi di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a cui si applica il regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970.
La Corte di cassazione ha reso questo principio con la sentenza 19774/16, depositata ieri, affermando che anche nel lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione la forma tipica di recesso del datore di lavoro, in difetto di norme speciali, è costituita unicamente dall’atto di licenziamento, senza che, in contrario avviso, possa avere alcuno spazio una fattispecie di recesso assimilabile alla risoluzione automatica del rapporto di lavoro.
Il caso su cui è intervenuta la Cassazione era relativo al provvedimento di dispensa dal servizio adottato con effetto immediato dalla Regione Lombardia nei confronti di un proprio dipendente, il quale, a seguito di accertamento medico, era stato ritenuto inabile in modo assoluto e permanente a qualsiasi attività lavorativa. La Corte di appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale di primo grado, aveva dichiarato la illegittimità del provvedimento datoriale di risoluzione del rapporto di lavoro, disattendendo la tesi per cui le ragioni sullo stato di salute alla base del recesso potessero integrare un’ipotesi di risoluzione automatica del rapporto ed esulare, quindi, dallo specifico regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi.
La Cassazione condivide la tesi coltivata dalla Corte territoriale e conferma che la risoluzione del rapporto di lavoro per sopravvenuta inidoneità psicofisica del dipendente alle mansioni, anche se adottata all’esito del giudizio espresso dalla Commissione medica nel contesto di specifiche disposizioni previste per il pubblico impiego, costituisce licenziamento per giustificato motivo oggettivo e ricade nel regime sanzionatorio di cui all’articolo dello 18 Statuto dei lavoratori, nella versione successiva alla riforma introdotta dalla Legge 92/2012 (Legge Fornero).
Il comma 7 dell’articolo 18, a cui espressamente si riferisce la Corte di cassazione, recita che si applica la reintegrazione in servizio, con ulteriore indennità fino ad un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in ipotesi di difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore. A questa specifica disposizione la corte di legittimità riconduce, nel contesto del pubblico impiego privatizzato, il licenziamento intimato ai sensi dell’articolo 55 del Decreto legislativo 165/2001 in un caso di «permanente inidoneità psicofisica del lavoratore», evidenziando che anche in questa ipotesi il recesso datoriale non costituisce un effetto automatico, bensì una tra le opzioni cui la pubblica amministrazione è legittimata a ricorrere.
Merita rilevare come con questa pronuncia la Cassazione ritorni sulla vexata quaestio della applicabilità al pubblico impiego dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua versione precedente o successiva alla riforma introdotta dalla Legge Fornero, sposando quella tesi più avanzata che è stata, invece, rigettata da un diverso orientamento maturato in seno alla Suprema corte.