Neomamma e la tutela per il rientro al lavoro:
La neomamma ha diritto di rientrare in servizio dopo la maternità presso la stessa unità aziendale di provenienza oppure in una differente unità produttiva ma nell’ambito dello stesso comune. A stabilirlo è la Corte Suprema di Cassazione che, con la Sentenza n. 13455 del 2016 depositata il 30 giugno 2016.
E di tutela neomamma ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (1.7.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “Rientro tutelato per la neomamma”).
Ecco l’articolo.
La lavoratrice diventata mamma ha diritto di rientrare in servizio dopo la maternità nella stessa unità aziendale di provenienza o in altra unità produttiva nell’ambito del medesimo comune. A sancirlo è l’articolo 56 del decreto legislativo 151/2001 . Non è, perciò, ingiustificata la prolungata assenza della lavoratrice madre chiamata a riprendere servizio presso una sede diversa da quella di provenienza, risultando il provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro privo di legittimità.
È questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 13455/2016, la quale afferma che, per valutare la legittimità del licenziamento per prolungata assenza dal lavoro, intimato nei confronti di una lavoratrice madre al rientro in servizio, non si può prescindere dall’applicazione delle speciali garanzie poste dal Dlgs 151/2001 a tutela della maternità. La Cassazione rileva, in proposito, che l’articolo 56, comma 1, del decreto prevede il diritto delle lavoratrici, salvo il caso in cui vi rinuncino espressamente, a rientrare al lavoro, al termine del periodo di maternità, nella stessa unità produttiva ove lavoravano all’inizio del periodo di gravidanza o in altra sede posizionata nello stesso territorio comunale.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema Corte era relativo a una lavoratrice madre, nei cui confronti il datore di lavoro aveva ordinato di riprendere servizio presso un’unità aziendale situata in un comune diverso da quello ove la donna prestava servizio al momento della gravidanza. A fronte di una prolungata assenza della dipendente, che aveva omesso di conformarsi all’ordine datoriale sulla nuova sede di lavoro, il datore di lavoro aveva disposto il suo licenziamento. La lavoratrice aveva impugnato il provvedimento espulsivo e rimarcato la natura discriminatoria del licenziamento. In primo e in secondo grado, il ricorso della lavoratrice era stato respinto, sul presupposto che la dipendente non aveva dato prova dell’effettiva esistenza di atti preparatori del licenziamento qualificabili alla stregua di azioni discriminatorie in ragione della condizione di madre della lavoratrice.
La Corte di cassazione riforma la decisione della Corte d’Appello, rilevando che, a prescindere dalla mancata dimostrazione di un’effettiva condotta strumentale del datore di lavoro, il dato dirimente sul quale avrebbe dovuto soffermarsi la valutazione del giudice era di verificare se l’assenza dal lavoro, alla luce della disciplina speciale sulla tutela della genitorialità, potesse o meno ritenersi ingiustificata.
Tale preliminare verifica non era stata operata nei due gradi di merito e, per tale ragione, la Cassazione ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di Venezia (in diversa composizione), perché si proceda a un nuovo esame della fattispecie in applicazione del principio per cui la sede di rientro, dopo l’astensione per maternità della lavoratrice, deve coincidere con quella di provenienza o con altra sede ubicata nello stesso comune.