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Velo islamico, legittimo vietarlo sul lavoro

Velo islamico, legittimo vietarlo sul lavoro

Velo islamico, legittimo vietarlo sul lavoro:

Il datore di lavoro può vietare il velo islamico e altri segni religiosi, politici e filosofici visibili ai propri dipendenti, senza rischiare accuse di discriminazione e al fine di realizzare la legittima politica di neutralità religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro.

Queste sono le Conclusioni depositate dall’Avvocato generale Kokott della Corte di giustizia dell’Unione europea, nella causa C-157/15, a proposito del divieto di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro.

Come è noto le conclusioni depositate dall’Avvocato generale non sono vincolanti, ma sono tuttavia generalmente seguite dalla Corte.

Ma vediamo cosa dice al riguardo il comunicato stampa della Corte di Giustizia UE su tale vicenda.

La sig.ra Samira Achbita, di fede musulmana, era occupata come receptionist presso la società belga G4S Secure Solutions, che fornisce servizi di sorveglianza e sicurezza nonché di accoglienza. Quando, dopo tre anni di attività presso tale impresa, ha insistito di poter indossare in futuro un velo islamico al lavoro, è stata licenziata, in quanto presso la G4S è vietato portare segni religiosi, politici e filosofici visibili. Con il sostegno del centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo, la medesima ha citato per danni la GS4 dinanzi ai giudici belgi, rimanendo soccombente nei primi due gradi di giudizio. La Corte di cassazione belga, attualmente investita della controversia, chiede alla Corte, in tale contesto, precisazioni quanto al divieto, previsto dal diritto dell’Unione, di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali (Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16). Per motivi di semplificazione nel prosieguo si parlerà solo di “discriminazione fondata sulla religione)”.

Nelle sue conclusioni odierne, l’avvocato generale Juliane Kokott sostiene che non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione il divieto posto ad una lavoratrice di fede musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro se tale divieto si fonda su una regola aziendale generale intesa a vietare sul posto di lavoro segni politici, filosofici e religiosi visibili e non poggia su stereotipi o pregiudizi nei confronti di una o più religioni determinate oppure nei confronti di convinzioni religiose in generale. In un tale caso, infatti, non vi sarebbe un trattamento meno favorevole sulla base della religione.

Certo, il divieto in questione potrebbe costituire una discriminazione indiretta fondata sulla religione (infatti, tale disposizione sarebbe idonea, di fatto, a mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia, nel caso in esame le dipendenti di fede musulmana), tuttavia tale discriminazione (in quanto requisito essenziale, determinante e legittimo per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva) potrebbe essere giustificata al fine di attuare una politica legittima di neutralità religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro nella propria azienda, sempreché in tale contesto il principio di proporzionalità venga rispettato (la politica di neutralità di cui trattasi non eccederebbe i limiti del potere discrezionale imprenditoriale. Tale politica addirittura si imporrebbe presso la G4S, e non solo a causa della varietà dei clienti, ma anche a causa della particolare natura delle attività svolte in tale contesto dal personale della G4S. Tali attività sono caratterizzate dal costante contatto faccia a faccia con persone esterne e rappresentano per il pubblico non solo l’immagine della G4S stessa, ma, soprattutto, l’immagine dei suoi clienti).

In un caso come quello in esame, il controllo di proporzionalità è una questione delicata, in relazione alla quale la Corte dovrebbe conferire alle autorità nazionali – e in particolare ai giudici nazionali – un certo potere discrezionale, da esercitare nel rigoroso rispetto delle prescrizioni del diritto dell’Unione. Spetterebbe, quindi, in definitiva, alla Corte di cassazione belga ponderare equamente, nel caso di specie, gli interessi in gioco, tenendo conto di tutte le circostanze rilevanti del caso concreto (in particolare delle dimensioni e della vistosità del segno religioso, del tipo di attività della lavoratrice e del contesto in cui ella è tenuta a svolgerla, nonché dell’identità nazionale del Belgio).

La sig.ra Kokott ritiene tuttavia che sia pacifico, in linea di principio, che il divieto di cui trattasi sia idoneo a conseguire la finalità legittima perseguita dalla G4S di neutralità religiosa e ideologica. Siffatto divieto risulta anche necessario alla realizzazione di tale politica imprenditoriale. Alternative meno restrittive e cionondimeno parimenti idonee non sono state rese note nel procedimento dinanzi alla Corte.

Per quanto riguarda, infine, il controllo di proporzionalità senso stretto, la sig.ra Kokott considera che molti elementi depongono nel senso che il divieto controverso non arreca, nella specie, un eccessivo pregiudizio ai legittimi interessi delle lavoratrici in questione e deve pertanto essere considerato proporzionato.

Certo, la religione rappresenta per molte persone una parte importante della loro identità e la libertà di religione costituisce uno dei fondamenti di una società democratica.

Tuttavia, mentre un lavoratore non può «mettere nell’armadietto» il proprio sesso, il colore della propria pelle, la propria origine etnica, il proprio orientamento sessuale, la propria età o il proprio handicap non appena entra nei locali del proprio datore di lavoro, dallo stesso lavoratore può essere pretesa una certa riservatezza per quanto attiene all’esercizio della religione sul luogo di lavoro, sia che si tratti di pratiche religiose o di comportamenti motivati dalla religione sia che si tratti – come nella specie – del suo abbigliamento. Il grado di riservatezza che può essere preteso da un lavoratore dipende da una valutazione complessiva di tutte le circostanze rilevanti del singolo caso concreto.

(Fonte: Curia Europea)

 

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