Repêchage e obbligo di proporre mansioni inferiori solo in alcuni casi:
In tema di obbligo di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo la Corte di Cassazione ha reso recentemente varie sentenze sull’argomento che, solo ad un primo impatto, sembrerebbero contenere principi di diritto in contrasto tra loro.
In particolare ci si riferisce alla sentenza n. 4509 del 2016 e alla sentenza n. 9467 del 2016 (v. il nostro articolo “Mansioni inferiori niente repêchage”) nelle quali nel riconfermare per il datore di lavoro l’obbligo di repêchage, viene altresì ammessa l’impossibilità dell’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, per evitare il licenziamento, laddove le nuove mansioni non siano omogenee alla professionalità acquisita.
E di repêchage ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (24.5.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Aldo Bottini; Titolo: “Le competenze limitano il repêchage”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Due recenti sentenze della Cassazione (4509/2016 e 9467/2016) sono intervenute sul tema dell’obbligo di repêchage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, giungendo a conclusioni apparentemente contrastanti.
Entrambe danno per scontata la consolidata costruzione giurisprudenziale dell’obbligo di repêchage, che fa carico al datore di lavoro di provare, oltre al venir meno dell’utilizzabilità del lavoratore nelle mansioni assegnate, anche l’impossibilità di un suo diverso utilizzo nell’ambito aziendale. Ed entrambe si pongono il problema se tale diverso utilizzo possa riguardare anche mansioni inferiori. Sul punto le conclusioni sembrano divergere.
La sentenza 4509/2016 pone in capo al datore di lavoro l’onere di provare (oltre alla soppressione della posizione lavorativa ricoperta) non solo «che non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato al licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori». La sentenza 9467/2016 conclude, invece, per l’inesistenza di un «obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore tutte le mansioni, anche quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza dal lavoratore».
In realtà, a ben vedere, le due decisioni non sono così divergenti come sembrerebbe a una prima lettura. La prima sentenza, infatti, pone sì un obbligo di offrire al dipendente, in alternativa al licenziamento, mansioni anche inferiori, ma lo subordina pur sempre al fatto che le stesse siano «rientranti nel suo bagaglio professionale» e «siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore». Quindi, non qualsiasi mansione inferiore, in ipotesi disponibile, deve essere offerta al lavoratore in adempimento dell’obbligo di repêchage.
La seconda sentenza specifica ancor meglio il concetto. Perché sorga l’obbligo di prospettare al lavoratore l’utilizzo in una mansione inferiore, occorre che quest’ultima presenti «una certa omogeneità con i compiti originariamente svolti». Le mansioni inferiori, perché sorga l’obbligo di offrirle, devono rientrare nel bagaglio professionale del lavoratore da ricollocare o quantomeno essere compatibili con il medesimo, a nulla rilevando che il dipendente si sia dichiarato disponibile a svolgerle. Se non hanno tali caratteristiche, non sorge alcun obbligo a carico del datore di lavoro e non può essere ravvisata alcuna violazione del dovere di ricollocazione in alternativa al licenziamento.
Entrambe le sentenze, dunque, pur con diversità di accenti, approdano in fondo alla medesima conclusione: l’obbligo di repêchage non può estendersi a qualsiasi mansione inferiore, ma solo a quelle che presentino caratteristiche di compatibilità e omogeneità con le precedenti. Si tratta, in fondo, di un principio di buon senso, che aiuta a orientarsi anche nel dibattito seguito alla modifica della norma sul cambio di mansioni (articolo 2103 del codice civile modificato dal Dlgs 81/2015) e alle ricadute di quest’ultima sul repêchage, che alcuni vorrebbero estendere a tutte le ipotesi in cui la nuova norma consente al datore l’esercizio dello ius variandi.
Essendo quest’ultimo ampliato a tutte le mansioni corrispondenti al livello di inquadramento e, in determinati casi, anche al livello inferiore, l’ambito del repêchage dovrebbe corrispondentemente allargarsi.
Il parallelismo non convince, e i principi affermati dalle due sentenze consentono di escluderlo. Un conto è la libera (e insindacabile) scelta che il datore può fare di destinare il lavoratore a una mansione completamente diversa da quella svolta in precedenza, assumendosene i rischi, primo tra tutti quello che il lavoratore si riveli non idoneo. Altro è l’obbligo di offrire una mansione diversa (in ipotesi anche inferiore) in alternativa al licenziamento. In quest’ultimo caso non può prescindersi, come insegnano le due sentenze, da una valutazione di omogeneità e compatibilità della mansione alternativa con le competenze professionali del lavoratore.