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Agente e procacciatore d’affari secondo la Cassazione

La distinzione tra agente e procacciatore d’affari, da sempre in discussione soprattutto relativamente alla questione del versamento dei contributi all’Enasarco, è stata di recente oggetto di una decisione della Cassazione che ne ha tratteggiato le caratteristiche de entrambe le figure.

È questo il tema dell’articolo pubblicato oggi (29.2.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Egidio Paolucci; Titolo: “Il criterio della «stabilità»”) che vi proponiamo.

Ecco l’articolo.

La vexata quaestio che ha portato, e porta, gli operatori a dibattere sulla corretta individuazione degli elementi che distinguono la figura dell’agente da quella del procacciatore di affari tiene ancora banco risultando ancora attuale dopo la recente ed interessante sentenza della Suprema corte.

Il segnale che sembra emergere dalla recente decisione del 2 febbraio 2016 è quello che la distinzione tra le due figure abbia ormai travalicato del tutto gli interessi dei contraenti (tutto sommato, marginali) per interessare quelli pubblicistici che coinvolgono gli enti previdenziali, dove si trovano in una sorta di virtuale contrapposizione sia l’Istituto previdenziale nazionale (Inps) che quello degli agenti di commercio (Enasarco), entrambi impegnati a catalizzare quel complesso mondo, molto folto, di operatori che, a vario titolo, fanno parte delle reti commerciali delle imprese.

Da sempre, sotto il profilo tecnico, è stato ritenuto che la figura dell’agente debba essere ricondotta a quella che si inquadra nello schema contrattuale espressamente previsto dal nostro ordinamento mentre quella del procacciatore di affari debba essere ricondotta a quella figura giuridica le cui caratteristiche non potendo essere collocate in alcuno degli schemi contrattuali tipici vanno inserite nel generico ambito dei “prestatori d’opera”.

La Corte, nell’occasione, si è trovata a decidere, su richiesta dell’Enasarco, se una impresa fosse o meno tenuta al pagamento dei contributi previdenziali in relazione ad alcune figure di collaboratori che, non avendo sottoscritto un contratto di agenzia, se ne ritenevano esenti. Il ragionamento seguito dai giudici sembra ricalcare un po’ quello che molti decenni addietro gli stessi giudici furono tenuti ad affrontare per individuare quelli che furono definiti i cosiddetti “requisiti fisionomici” della prestazione di lavoro subordinato per poterla distinguere da quella da lavoro autonomo.

E così, si è tenuto a ribadire che gli indici rivelatori dell’attività di agente vanno individuati nelle caratteristiche della continuità e della stabilità della prestazione di lavoro che ha come oggetto la promozione delle vendite e, quindi, la conclusione di contratti per conto del preponente, nell’ambito di una determinata zona territoriale, realizzando con esso una collaborazione non episodica ma caratterizzata – appunto – da stabilità; indici rivelatori di natura sussidiaria possono essere, invece, considerati il vincolo ad un patto di esclusiva, la previsione di accordi provvigionali oppure la previsione del patto di non concorrenza post contrattuale.

Il contributo dei giudici di legittimità ha portato a catalogare criteri di individuazione della tipologia contrattuale in questione partendo dalla disamina della prestazione lavorativa in concreto (o se vogliamo ex post), con la ovvia conseguenza che soltanto l’indagine, caso per caso, potrà dare una soluzione definitiva.

Il criterio ribadito dalla Cassazione non ha, però, dato un contributo interpretativo decisivo per eliminare, o quanto meno ridurre, i conflitti nell’attribuzione alle diverse concettuali che generano altrettanti conflitti di attribuzione di natura previdenziale.

L’iter argomentativo o, se vogliamo, la soluzione adottata dalla decisione in commento è di quelle che danno ragione a chi pensa che c’è bisogno di un intervento legislativo sulla materia; ciò non tanto nei rapporti tra i contraenti dove gli spazi lasciati all’autonomia privata sono molto ampi e dove le scelte sono quasi sempre consapevoli, quanto ai rapporti con gli enti previdenziali nel cui ambito le certezze vacillano ed il ricorso alla magistratura alla fine diventa sempre purtroppo inevitabile.

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