Mansioni equivalenti e classificazione contrattuale:
In tema di mansioni equivalenti e classificazione dei contratti collettivi, anche alla luce della riforma delle mansioni introdotta dal Jobs Act, la Suprema Corte ha reso un interessante principio di diritto con la sentenza n. 3422 del 2016.
A parlarcene è l’articolo pubblicato oggi (24.2.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “Nuove mansioni da verificare”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Anche in presenza di un nuovo sistema di classificazione definito dal contratto collettivo, dal quale sia derivato l’accorpamento in un’unica qualifica di profili professionali precedentemente inseriti in ambiti contrattuali diversi, non tutte le mansioni riconducibili alla nuova area contrattuale sono esigibili. Il giudice, infatti, è tenuto a verificare l’equivalenza sostanziale, sul piano oggettivo e soggettivo, delle nuove attività a quelle precedentemente svolte dal lavoratore.
Con sentenza 3422/2016 la Corte di cassazione ha affermato che un giudizio di equivalenza, in base all’articolo 2103 del Codice civile, costituisce presupposto ineliminabile per verificare la compatibilità delle nuove mansioni assegnate a un lavoratore rispetto a quelle di provenienza, quand’anche le une e le altre appartengano, in virtù della previsione contrattuale collettiva, alla medesima qualifica.
Questa conclusione, ad avviso della Suprema Corte, deve essere confermata anche se il nuovo sistema di classificazione previsto dalla contrattazione collettiva, da cui è derivata l’inclusione in un’unica qualifica di profili in precedenza inseriti in aree contrattuali diverse, risponde a una riorganizzazione aziendale.
Sulla base di questi presupposti, un’azienda è stata condannata a risarcire il danno professionale di un addetto allo smistamento della corrispondenza in misura pari al 40% della sua retribuzione mensile, moltiplicata per i due anni nei quali, a seguito dell’accorpamento delle vecchie categorie professionali in nuove aree di inquadramento, il lavoratore è stato adibito a mansioni diverse da quelle originarie, ma riconducibili alla medesima area contrattuale.
Ad avviso della Cassazione, l’azienda non avrebbe dovuto limitarsi ad affermare la sussistenza di un’equivalenza convenzionale tra le mansioni di provenienza e quelle affidate al lavoratore con l’entrata in vigore del nuovo sistema di classificazione, ma avrebbe dovuto procedere, anche in tal caso, a una ponderata valutazione dell’idoneità delle nuove funzioni a garantire la salvaguardia in concreto del livello professionale acquisito e a consentire al lavoratore un accrescimento delle sue capacità.
La sentenza è paradigmatica di un assetto regolatorio oggi superato dalle nuove disposizioni del Jobs act che, in tema di esercizio del potere datoriale di variare le mansioni dei dipendenti, ha introdotto una disciplina indubbiamente più flessibile, tale per cui tutte le funzioni riconducibili al medesimo livello di inquadramento sono esigibili dall’imprenditore.
La nuova disciplina legale, frutto delle modifiche introdotte dall’articolo 3 del Dlgs 81/2015, prevede inoltre che l’imprenditore possa attribuire ai lavoratori mansioni che rientrano nel livello di inquadramento immediatamente inferiore, se ciò sia giustificato da un mutamento degli assetti organizzativi aziendali.
Rispetto al quadro ben più ingessato nel cui ambito si è espressa la sentenza della Cassazione, le nuove regole confermano i maggiori spazi di movimento di cui gode oggi l’imprenditore nella gestione del personale, tale per cui, onde evitare che sia contestato un esercizio illecito dello jus variandi datoriale, sarà sufficiente accertare che le nuove mansioni assegnate ai lavoratori siano riconducibili al medesimo livello contrattuale o, se relative a un livello inferiore, che siano state attribuite in forza di una effettiva riorganizzazione interna.