Corte Giustizia UE sul licenziamento per discriminazione sessuale:
Con la sentenza 17 dicembre 2015 della Corte di Giustizia UE sul licenziamento per discriminazione sessuale ha stabilito che il danno subito da una lavoratrice per tale forma di discriminazione deve essere risarcito integralmente sia da un punto di vista di indennizzo per il danno relativo sia per finalità dissuasive di tali comportamenti.
Questo l’argomento di un articolo pubblicato oggi (23.12.2015) sul Sole 24 Ore (Firma: Marina Castellaneta; Titolo: “Il risarcimento deve dissuadere”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Il danno subito da una lavoratrice licenziata per una discriminazione basata sul sesso deve essere risarcito in modo integrale. Questo perché il risarcimento non deve solo riparare o indennizzare il danno subito in modo effettivo e proporzionale, ma deve avere anche un effetto dissuasivo rispetto a altri comportamenti.
Un principio che va nel senso di una più ampia tutela dei lavoratori quello fissato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 17 dicembre (C-407/14), in linea con la direttiva Ue 2006/54 sull’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, che mette in primo piano una tutela giurisdizionale effettiva, con un effetto dissuasivo reale.
È stato il giudice del lavoro di Cordoba (Spagna) a chiedere l’intervento in via pregiudiziale della corte di Lussemburgo. Una donna, agente di sicurezza in un istituto penitenziario, è stata licenziata e ha impugnato il provvedimento ritenendolo frutto di una discriminazione fondata sul sesso.
Il giudice le ha dato ragione, ipotizzando, però, un indennizzo limitato a 3mila euro. Di qui il dubbio dello stesso giudice, il quale ha chiesto alla Corte Ue se sia possibile concedere un risarcimento superiore in base all’articolo 18 della direttiva, sotto la forma dei danni punitivi, malgrado non siano previsti nell’ordinamento interno.
Prima di tutto la Corte Ue ha sottolineato che i cambiamenti introdotti nella direttiva 2006/54, recepita in Italia con il decreto legislativo 5/2010, rispetto alla precedente normativa puntano proprio ad assicurare una maggiore efficacia punitiva e a determinare un effetto dissuasivo reale nei confronti del datore di lavoro, non solo nel singolo caso.
Detto questo, però, gli Stati non sono obbligati a prevedere nel proprio ordinamento i danni punitivi e, quindi, se non previsti, il giudice nazionale non ha una base giuridica nella direttiva.
Ciò che conta – scrive la Corte – è che nei casi di violazione del principio di parità tra uomo e donna in cui si realizza un licenziamento discriminatorio, gli ordinamenti nazionali prevedano o la riassunzione del soggetto discriminato o un risarcimento monetario del danno. Che – scrivono i giudici – deve essere adeguato e consentire un’integrale riparazione del danno.
Di conseguenza, tenendo conto dell’articolo 18 della direttiva 2006/54, gli Stati membri, che optano per una forma pecuniaria di riparazione, sono tenuti a stabilire un «indennizzo che copra integralmente il danno subito ma non il versamento di danni punitivi» che possono, però, liberamente inserire nel proprio ordinamento per assicurare una protezione più favorevole per la vittima. A patto che i criteri stabiliti per calcolare l’entità della sanzione rispettino i principi di equivalenza e di effettività.