Sentenza UE su licenziamenti collettivi:
Con la sentenza UE 11 novembre 2015 su licenziamenti collettivi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha fornito una interpretazione particolarmente interessante sull’argomento che potrebbe avere effetti anche in Italia.
È questo il tema dell’articolo pubblicato oggi (12.11.2015) sul Sole 24 Ore (Firma: Aldo Bottini; Titolo: “Il recesso è licenziamento”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
La Corte di giustizia dell’Unione europea, con una sentenza pubblicata ieri (C-422/14), fornisce alcune importanti interpretazioni della direttiva europea sui licenziamenti collettivi (98/59/CE). La Corte si pronuncia su un rinvio pregiudiziale disposto da un giudice spagnolo e interviene su due punti centrali della direttiva: il criterio di computo della dimensione aziendale che rende applicabile la procedura di licenziamento collettivo e la nozione di licenziamento che rileva ai fini della determinazione della soglia numerica oltre la quale si ha un licenziamento collettivo.
Quanto al primo profilo, la direttiva fa riferimento al concetto di lavoratori «abitualmente» occupati nello stabilimento interessato dalla riduzione del personale. La questione posta alla Corte riguardava la computabilità o meno in tale organico “abituale” dei lavoratori con contratto a tempo determinato. La Corte rileva che, ai fini del calcolo dell’organico di uno stabilimento per l’applicazione della direttiva 98/59, la natura del rapporto di lavoro è irrilevante. Pertanto i lavoratori con contratto a tempo determinato devono essere considerati lavoratori abitualmente impiegati.
Sotto questo profilo la normativa italiana appare conforme alla direttiva, soprattutto dopo l’entrata in vigore dell’articolo 8 del Dlgs 368/2001, ora sostituito dall’articolo 27 del Dlgs 81/2015 (codice dei contratti), che stabilisce la computabilità dei lavoratori a termine, prevedendo anche uno specifico criterio di calcolo (numero medio mensile dei lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base della effettiva durata dei rapporti di lavoro).
Ciò posto, la Corte si occupa della determinazione della soglia numerica di applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi, ossia del numero di licenziamenti per ragioni non inerenti alla persona del dipendente (cioè per motivi oggettivi) oltre il quale si configura un licenziamento collettivo. La direttiva assimila ai licenziamenti «le cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purchè i licenziamenti siano almeno cinque».
La Corte afferma che il riferimento alla condizione dei cinque licenziamenti riguarda i licenziamenti in senso stretto e non le cessazioni assimilate. Tuttavia, e questa è la portata più innovatrice della sentenza, nella nozione di licenziamento (non definita espressamente dalla direttiva) deve, secondo la Corte, farsi rientrare «qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore e, quindi, senza il suo consenso». Nel caso spagnolo sottoposto all’attenzione della Corte, la questione riguardava una norma di legge che dà facoltà al lavoratore, danneggiato da una modifica sostanziale delle sue condizioni di lavoro, di recedere dal contratto ricevendo un’indennità. Qualcosa di simile, dunque, alle nostre dimissioni per giusta causa e alle ipotesi di dimissioni qualificate previste da alcuni contratti collettivi (ad esempio quelli dei dirigenti).
Ebbene, afferma la Corte, in un caso del genere la cessazione del rapporto è imputabile alla modifica unilaterale (e svantaggiosa) apportata dal datore di lavoro a un elemento sostanziale del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore e pertanto equivale a un licenziamento e come tale va considerato ai fini del computo della soglia numerica che determina l’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi.
La Corte conclude, pertanto, che viola la direttiva qualsiasi normativa nazionale o interpretazione che conduca a escludere dalla nozione di licenziamento fattispecie come quella sottoposta alla sua attenzione. Si tratta, all’evidenza, di un principio suscettibile di conseguenze di notevole rilievo anche nell’ordinamento italiano, nel quale sinora le dimissioni del lavoratore, anche se qualificate da una modifica pregiudizievole delle condizioni di lavoro operata dal datore di lavoro, sono sempre state ritenute irrilevanti ai fini del computo della soglia numerica per l’applicazione della procedura di licenziamento collettivo.