Licenziamento e obbligo di repêchage
La riforma del lavoro di cui al Jobs Act ed in particolare l’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 23, che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, ha influito anche sul licenziamento e obbligo di repêchage nel caso di giustificato motivo oggettivo.
È questo l’argomento trattato da un articolo pubblicato oggi (1.10.2015) sul Sole 24 Ore (firma: Angelo Zambelli; titolo: “Doppio binario per il “repêchage””) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Tra le novità introdotte dal Jobs act il decreto di maggior rilievo è quello sul contratto a tutele crescenti che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, ha eliminato la reintegrazione.
Di notevole importanza è anche la riforma dell’articolo 2103 del codice civile da parte del Dlgs 81/2015, in base al quale lo jus variandi del datore di lavoro non è più limitato dal principio di necessaria “equivalenza”, risultando consentito nell’ambito di mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento ma anche nell’ambito di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.
Ebbene, tali previsioni appaiono determinare – seppur solo indirettamente – anche un notevole mutamento degli obblighi di ricollocazione (cosiddetto repêchage) gravanti sul datore di lavoro in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Vero è, infatti, che secondo la consolidata giurisprudenza in tema, il controllo giudiziale su questo specifico tipo di recesso comporta la necessaria verifica dell’assolvimento da parte del datore di lavoro dell’onere di provare l’effettività delle «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (articolo 3, seconda parte, della legge 604/1966), addotte a fondamento del licenziamento, nonché l’incidenza causale di dette ragioni sulla posizione rivestita in azienda dal lavoratore licenziato. E fin qui nulla da osservare.
Ma la giurisprudenza ha elaborato altresì l’obbligo di repêchage, vale a dire un ulteriore obbligo per il datore di lavoro di verificare (e provare in giudizio) l’assenza, all’interno della struttura organizzativa dell’impresa, di mansioni alle quali poter adibire i dipendenti che sono stati licenziati per soppressione del posto di lavoro.
Orbene, appare di tutta evidenza come l’ampliamento dello jus variandi a opera del Dlgs 81/2015 determini inevitabilmente un ampliamento dell’obbligo di ricollocazione gravante sul datore di lavoro che sembrerebbe oggi costretto a dover estendere tale controllo a tutte le mansioni riconducibili al medesimo inquadramento e persino alle mansioni inferiori, laddove il licenziamento sia giustificato da mutamenti organizzativi.
Occorre però precisare come tale ampliamento dell’obbligo di repêchage sembra potersi applicare soltanto ai “vecchi assunti” e non, invece, ai dipendenti assunti con contratto a tutele crescenti nei confronti dei quali, al contrario, l’intero obbligo di ricollocazione potrebbe ritenersi addirittura non più sussistente alla luce del mutato contesto normativo, con conseguente ulteriore divaricazione delle tutele accordate tra lavoratori di una stessa azienda nel sistema del “doppio binario” introdotto dal Jobs act.
Infatti non può dimenticarsi come la teorizzazione dell’obbligo di repêchage costituisca la naturale conseguenza del principio secondo cui il licenziamento deve rappresentare l’extrema ratio, principio elaborato da dottrina e giurisprudenza a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che, nella sua versione originaria, aveva sostanzialmente assegnato alla stabilità del posto di lavoro un rilievo assolutamente preminente rispetto al valore dell’iniziativa economica garantito a livello costituzionale (articolo 41), prevedendo la reintegrazione nel posto di lavoro in tutti i casi di «licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo».
Tale tutela (detta tutela reale) è stata mantenuta, seppur in forma limitata, anche a seguito delle modifiche apportate dalla riforma Fornero oggi applicabile ai “vecchi assunti”. La legge 92/2012 ha stabilito, infatti, che il lavoratore può essere reintegrato solo in caso di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo», prevedendo «nelle altre ipotesi» di licenziamento illegittimo esclusivamente una tutela indennitaria (da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto).
Orbene, se l’obbligo di repêchage appariva coerente con l’impianto normativo adottato dal legislatore nel 1970 e, tutto sommato, ancora nel 2012, evidentemente improntato a garantire al lavoratore il mantenimento del proprio posto di lavoro (secondo l’idea di job property), così non sembra essere, invece, nell’ambito della nuova disciplina per licenziamento illegittimo prevista dall’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015 ove è stata eliminata qualsivoglia tutela in forma specifica a favore del lavoratore in caso di recesso illegittimo per giustificato motivo oggettivo, con evidente prevalenza delle esigenze economiche del datore di lavoro rispetto alla stabilità dell’occupazione.
È probabile che sul breve periodo la giurisprudenza, soprattutto di merito, farà fatica a recepire queste novità sistematiche. Non resta che attendere e verificare gli eventuali concreti sviluppi ed effetti nelle aule giudiziarie nel corso dei prossimi mesi.