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Mansioni inferiori e risarcimento del danno:

In tema di mansioni inferiori e risarcimento del danno riportiamo di seguito la decisione n. 250 del 2012 della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione.

Con la sentenza n. 250/2012 la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che “nel caso in cui il lavoratore subordinato lamenti la violazione dell’art. 2103 c.c. per assegnazione a mansioni inferiori a quelle esercitate in precedenza, il giudice di merito deve accertare, attraverso una valutazione comparativa, se le nuove mansioni impediscano l’utilizzazione e l’arricchimento della professionalità acquisita nella precedente fase del rapporto di lavoro, ovvero verificare se le capacità già acquisite siano state sottoutilizzate, l’ipotesi di dequalificazione non è esclusa dall’identicità della formale qualifica, poiché il detto l’accertamento giudiziale deve svolgersi con riguardo all’attività lavorativa esercitata in concreto.

Nella fattispecie il collegio ha svolto il suddetto accertamento in modo incensurabile ed ha persuasivamente osservato come una mansione come quella di collaudatore di autovetture su strada, richiedente conoscenze specializzate da incrementare con l’aggiornamento nonché esperienza acquisita con la pratica e da conservare attraverso il continuo allenamento, fosse stata seguita da una mansione più semplice e comune, come quella di verificatore e riparatore di cassoni metallici, peraltro sporadicamente esercitata“.

Per quanto concerne invece la sussistenza del danno professionale, la Corte ha ribadito che questo deve esere innanzi tutto ricondotto alla nozione del danno esistenziale, il quale consiste “nella perdita o diminuzione di capacità professionale con connessa perdita di prestigio nell’impresa“. E la Corte ha ritenuto altresì che “esso deve ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., essere allegato e provato, ma, trattandosi di danno diverso dall’immediata diminuzione del patrimonio facilmente identificabile in fatti concreti, assume principale rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione degli elementi accertati (durata e gravità della dequalificazione, conoscibilità nell’ambiente aziendale e fuori, frustrazione di aspettative di progressione) si possa con prudente apprezzamento ed anche sulla base del notorio (art. 115 cod. proc. civ.) risalirsi al fatto ignoto ossia all’esistenza del danno. A questi criteri si è attenuta la Corte d’appello nella sentenza impugnata, che perciò deve essere confermata“.

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Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte, riguarda un dipendente con mansioni di collaudatore di autovetture il quale, durante i primi nove anni di lavoro, aveva effettivamente svolto le mansioni per le quali era stato assunto salvo poi essere assegnato successivamente a mansioni inferiori di aiuto-fabbro addetto alla riparazione dei contenitori metallici.

Il lavoratore in questione si rivolgeva al giudice chiedendo la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno derivante dall’assegnazione a mansioni inferiori a quelle di appartenenza, in violazione dell’art. 2103 c.c. La domanda veniva accolta dal Tribunale e successivamente confermata anche dalla Corte di Appello. In particolare quest’ultima confermava la sentenza di primo grado rilevando che il complesso di nozioni e di esperienza professionale acquisite dal lavoratore, in qualità di collaudatore di autovetture, era rimasto inutilizzato con necessaria e conseguente impossibilità di incrementarlo. Riteneva pertanto tutto ciò sufficiente a presumere il danno non patrimoniale in capo al lavoratore.

L’azienda proponeva ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello sul presupposto che questa aveva accertato il danno da dequalificazione senza la presenza di prove concrete che dimostrassero effettivamente i danni subiti dal lavoratore sia alla professionalità che all’immagine e/o alla vita di relazione.

La Corte Suprema riteneva infondato il motivo di impugnazione così come formulato dalla società datrice di lavoro, e aderendo al principio già espresso in due precedenti sue pronunce (n. 6856/01 e 4790/04) ha precisato quanto segue: “Nel caso in cui il lavoratore lamenti la violazione dell’articolo 2103 del codice civile per assegnazione a mansioni inferiori a quelle esercitate in precedenza, il giudice deve accertare, attraverso una valutazione comparativa, se le nuove mansioni impediscano l’utilizzazione e l’arricchimento della professionalità acquisita nella precedente fase del rapporto di lavoro, ovvero verificare se le capacità già acquisite siano state sottoutilizzate”. Pertanto l’ipotesi di dequalificazione – ha proseguito la Corte – “non è esclusa dall’identità della qualifica formale, poiché l’accertamento giudiziale deve svolgersi con riguardo all’attività lavorativa esercitata in concreto”. La Corte ha quindi ritenuto ammissibile la prova per presunzione del danno professionale sul presupposto che “La sussistenza del danno professionale, comunemente ricondotto alla nozione di danno cosiddetto esistenziale e consistente nella perdita o diminuzione di capacità professionale con connessa perdita di prestigio nell’impresa, deve essere allegato e provato ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile, ma,trattandosi di danno diverso dall’immediata diminuzione del patrimonio facilmente identificabile in fatti concreti, assume principale rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione degli elementi accertati (durata e gravità della dequalificazione, conoscibilità nell’ambiente aziendale e fuori, frustrazione di aspettative di progressione) si possa risalire, con prudente apprezzamento ed anche sulla base del notorio (articolo 115 c.p.c.), al fatto ignoto ossia all’esistenza del danno”.

La Suprema Corte quindi confermava la sentenza impugnata e rigettava – in aderenza ai principi sopra esposti – il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro.

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